THE ROLLING STONES – HACKNEY DIAMONDS
(rock)
Partiamo subito dicendo che, sono lontanissimi i tempi di Some Girls del 1978. Hackney Diamonds presenta testi banali, riff di chitarra dubbi e robe trite alla Keith Richards (che suona gli stessi accordi da diversi album ormai), ma qualcosa di buono c’è e si sente. Ciò che le parti dell’album catturano positivamente prendono forma quando Watt (scomparso ad agosto 2021) guida la band verso una luce assopita.
Per quanto energico e orecchiabile sia, l’album mostra anche alcune tracce che suggeriscono che gli Stones potrebbero fare meglio abbracciando la loro carta d’identità reale piuttosto che affermare sempre la loro eterna giovinezza.
(Giovanni Aragona)
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BLINK-182 – ONE MORE TIME…
(pop punk)
Sono successe molte cose da quando i Blink-182 hanno pubblicato il loro primo clamoroso esordio: l’uscita dalla band e il ritorno di Tom DeLonge dopo un’assenza di sette anni, il cancro di Mark Hoppus e la Kardashianizzazione di Travis Barker. Il loro album precedente, Nine, ha adottato un approccio più sperimentale, ma il loro nono disco torna alle origini, il che è sia una cosa buona che una cattiva.
La band è al suo meglio in questo lavoro quando stacca lo strato scherzoso per rivelare verità reali. Il disco suona come ogni disco della band, con ritmi di batteria altissimi, riff seghettati e melodie pop-punk rimbalzanti e spinate. I fan saranno contenti che il trio si sia riunito, ma forse meno felici di sapere che la band ha realmente poco – o nulla – da dire ormai.
(Giovanni Aragona)
BOMBAY BICYCLE CLUB – MY BIG DAY
(indie-rock, indie-pop)
Pochi dubbi: se avete ancora voglia di consumare un buon disco indie-rock, suonato senza fronzoli, efficace e diretto, qualsiasi cosa dei Bombay Bicycle Club può far al caso vostro. Il songwriting espressivo e la strumentazione varia che spazia dal folk al pop-rock rimbalzante e divertente ai territori indie rock più intriganti, sono i perfetti ingredienti di questo disco.
La creatività e l’ambizione del gruppo sommata alla volontà di evolversi costantemente con il loro stile unico, sarà sempre il motore di questa band sempre in continua evoluzione e con tanto coraggio. Questo My Big Day lo ha dimostrato.
(Giovanni Aragona)
GLEN HANSARD – ALL THAT WAS EAST IS WEST OF ME NOW
(indie-folk)
Torna anche Glen Hansard in quest’anno affollato di uscite discografiche, il cantautore irlandese va, sicuramente, annoverato tra i migliori della sua generazione, al di là dei gusti sia chiaro, gli va riconosciuta quella caratura sopra le righe nel saper scrivere semplicemente grandi canzoni, che sia con i The Frames, sua band storica, si rispolveri il piccolo capolavoro “Fitzcarraldo”, piuttosto che il delizioso progetto “Swell Season” insieme alla sodale Markéta Irglová, ma anche quella prova d’attore in “Once” e la relativa colonna sonora, che gli valse pure un oscar.
Una carriera da otto in pagella, e, dopotutto questa cronologia d’élite, è nella dimensione live, che da il meglio di sé, istrionico, bravissimo e unico di per se, ricordo una data straordinaria al Vittoriale di Gardone Riviera, dove ci invitò a salire sul palco per accerchiarlo e cantare con lui l’ultimo brano in scaletta, strepitoso.
Quindi il disco nuovo sancisce l’ennesimo tassello di un mosaico personale, un lavoro che arriva ben 4 anni dopo il precedente “The Wind Willing”, “All That Was East Is West Of Me Now”, questo il titolo, è il quinto disco a moniker anagrafico, un lavoro diretto, conciso e senza girarci troppo attorno, nove canzoni di folk rock, sentito e viscerale, una sorta di ritorno alle origini, al suo succitato primo progetto, complice anche la presenza di Rob Bochnik, chitarrista appunto dei The Frames.
Non si può non citare “There’s no mountain”, uscita in solitaria come antipasto, tipica ballad da manuale, già classico nel repertorio di domani. La successiva “Sure As The Rain” invece mette i brividi, racconto acustico con tutte le imperfezioni del caso, confidenziale e malinconico perfetta per il cambio di stagione; la visceralità che sa di classico marchio di fabbrica di casa Hansard è “The Feist Of St. John”, che apre il disco e che vede anche la presenza di Mr. Warren Ellis al violino, “Bearing Witness” invece è soffice e leggera. Glen oltre a meritarsi tutti i complimenti del caso per un percorso inattaccabile, è uno dei pochi che può vantarsi di una carriera senza punti deboli, sostanzialmente non sbaglia mai e non è cosa da poco visti i tempi.
(Fabio Campetti)
CALCUTTA – RELAX
(it pop, indie pop)
A cinque anni di distanza dall’ultimo lavoro, e dopo aver annunciato un tour di recente, tanta era l’attesa per questo nuovo album di Calcutta. Relax, vi diciamo subito che è quello di cui la musica italiana avrebbe bisogno almeno ogni mese, ma così purtroppo non è. L’artista di Latina rappresenta con il consueto sarcasmo elusivo un’umanità dispotica richiamata qui in molte delle undici tracce che compongono questo disco.
Se la ricerca vocale e sonora non è mai stata una prerogativa di Calcutta, il suo disinteresse sgangherato si traduce in un lavoro perfetto da ogni punto di vista. Ogni canzone è un mantra ipnotico dove non c’è evoluzione né intento costruttivo nella disposizione delle parti. Bentornato.
(Giovanni Aragona)
SAMPHA – LAHAI
(hip hop, neo soul)
Come cantava sei anni fa in Process, suo clamoroso disco d’esordio, Sampha ha sempre affidato al piano il compito di raccontare le sue storie. ‘No one knows me like the piano in my mother’s home’. Oggi, dopo sei anni, è nuovamente il piano ad introdurci con una cascata di note frenetiche a Lahai, nuovo lavoro dell’artista inglese.
Durante questo lungo tempo di pausa, Sampha è diventato padre ed ha collaborato praticamente con tutti gli artisti più importanti dell’universo ‘hip hop e suoi derivati’. Nel momento in cui ha iniziato a lavorare al nuovo album, il musicista inglese ha avuto bisogno di tornare a chiudersi in sé per elaborare i cambiamenti intercorsi sul piano personale, trovando ispirazione nelle letture; Il Gabbiano di Livingston, presente in maniera palese nel disco con un brano caldissimo, Jonathan L. Seagull, e il testo di Kodwo Eshun sull’ Afrofuturismo hanno contribuito alla produzione di Lahai.
Questo lavoro è, come il primo, estremamente personale ed estremamente bello, ma in questo caso il paesaggio sonoro è più pacato, e quando il tempo si dilata, Rose Tint, le melodie minimali sono sempre avvolgenti. Il disco parla del tempo, del suo inevitabile trascorrere, Stereo Colour Cloud (Shaman’s Dream), di come sia importante ricordare il tempo passato per poter guarire dai traumi presenti.
A livello sonoro i brani sono scaldati dall’immancabile piano e illuminati dalla chiara voce di Sampha, sono colorati da influenze Jazz, rap, soul, libere di muoversi in uno spazio delineato nella struttura dal Neo Soul e da incursioni Afrofuturiste. Sampha si è circondato di moltissimi collaboratori, fra cui Yussef Dayes, Yaeji, Laura Groves, Morgan Simpson (batterista dei Black Midi) che hanno contribuito a rendere il suono di Lahai intimo e ricco. Questo album conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, Sampha come uno degli artisti più importanti della sua generazione. Bentornato.
(Chiara Luzi)
LOST GIRLS – SELVUTSLETTER
(synth pop, art pop)
Un leggero passo indietro rispetto al passato per il duo norvegese Il duo norvegese qui leggermente a marce basse rispetto alle meraviglie, e alla quinta innestata, nel loro debutto nel 2021, Menneskekollektivet. Non disperate però, questo disco è un altro volo di fantasia che abbaglia nella sua sfida alle aspettative.
Ciò è dovuto in gran parte al modo in cui la cantante Jenny Hval usa la sua voce penetrante sia per entrare che per provocare. I tentativi di sminuire gli elementi elettronici e rafforzare il songwriting pagano. Occhio eh, se necessitate un disco pop sperimentale questo fa assolutamente per voi.
(Giovanni Aragona)
AN EARLY BIRD – A BEAUTIFUL WASTE OF TIME
(songwriting)
Stefano De Stefano fa ormai da tempo parte di quegli artisti, che io apprezzo tantissimo, che se ne fregano di tutto e fanno quello che sanno fare, senza menate di alcun tipo riguardanti evoluzione, originalità, aderenza della proposta a ciò che va più in voga, promozione. Lui scrive canzoni e registra a getto continuo, contatta gli artisti che gli piacciono per proporre collaborazioni, senza timori reverenziali, dialoga direttamente e senza intermediari con gli addetti ai lavori che decide lui, che siano giornalisti, discografici o organizzatori di concerti.
Uno spirito davvero libero e un artista integro come ce ne sono pochissimi, almeno qui da noi, e solo per questo meriterà sempre e solo ammirazione e rispetto. Al quinto album in sei anni, l’identità di An Early Bird è ormai solidamente costruita e non sono ammesse deviazioni dal percorso base, fatto di un suono dolce e essenziale, da un timbro vocale zuccherino, da melodie limpidissime e da testi che rappresentano uno sguardo dentro la propria persona, con alcune escursioni fuori da essa.
(Stefano Bartolotta)
PIP BLOM – BOBBIE
(indie-rock, indie-pop)
È chiaro che con il loro terzo album i Pip Blom ci hanno voluto divertire. Bobbie ci dà il benvenuto in una nuova era della band del tutto spensierata rispetto alla pesantezza del passato.
Questo non vuol dire che il classico suono indie-rock per cui il marchio Pip Blom è meglio conosciuto sia andato perso, qui melodie di chitarra e sintetizzatori si fondono senza problemi e il risultato finale è altamente gradevole. Ascoltate Is This Love, con ospite Alex Kapranos dei Franz Ferdinand per credere.
(Giovanni Aragona)
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