Temple of The Dog, nitida fotografia di un’epoca e di un modo di essere

Nato come tributo al cantante Andrew Wood dei Mother Love Bone, Temple of the Dog è il primo e unico album in studio del supergruppo.

11:45:49  – 16/04/2021


La genesi dei Temple of The Dog

Primavera del 1991: siamo nell’anno magico del grunge e di molto alternative rock statunitense e non solo. L’anno di Nevermind e Ten e della definitiva legittimazione del suono di Seattle come nuovo orizzonte del rock a stelle e strisce. A metà aprile esce Temple of the Dog, album omonimo del supergruppo che prende il nome da un verso della meravigliosa Man of Golden Words, dei Mother Love Bone. Mai celebrati abbastanza, questi ultimi sono stati uno dei più grandi gruppi grunge pre-Nevermind, autori di un solo vero e proprio LP (il capolavoro Apple, del 1990), e fautori di un mix magico di hard blues e influenze glam, guidati dall’istrionico Andrew Wood, prima grande icona grunge, morto nel marzo del 1990 per overdose.


E proprio dalle ceneri dei Mother Love Bone nasce l’idea di mettere insieme i cocci e dare alla luce il progetto Tempe of the Dog, che nasce in contemporanea con la imminente fondazione dei Pearl Jam. Ne fanno parte, appunto, membri dei defunti Mother Love Bone (il chitarrista Stone Gossard e il bassista Jeff Ament, nel frattempo fondatori dei Pearl Jam) e dei Soundgarden: Matt Cameron alla batteria, e soprattutto Chris Cornell alla voce, amico fraterno di Andy Wood e vero e proprio deux ex machina dell’operazione, autore dei testi di tutti e dieci i brani e di sette tra questi unico autore. Sono poi arruolati un ancora sconosciuto Eddie Vedder (voce in Hunger Strike e cori in altri brani) e il chitarrista solista Mike McCready, anche lui futuro membro dei Pearl Jam.

Il tributo e la rivolta al dolore

Inizialmente l’idea di Cornell era la pubblicazione di un singolo alla memoria di Wood insieme ai due ex Mother Love Bone, con le sole due canzoni Say Hello 2 Heaven e Reach Down. Ma dalle session uscirono molti più brani, e si optò per un LP, prodotto dalla A&M Records. Nonostante il buon successo iniziale, soprattutto del singolo Hunger Strike, l’album divenne disco di platino l’anno dopo, quanto il terreno si fece più fertile grazie al boom di Ten e Nevermind. Musicalmente, il disco è uno dei più “retromaniaci” del grunge, intriso com’è di reminiscenze hard blues britanniche anni ‘70: il vero scarto rispetto ai Mother Love Bone sta nella inconfondibile voce di Cornell, meno sensuale e sguaiata di quella di Wood, ma più innodica e sontuosa.

L’atmosfera del disco è sempre quella del requiem, del tributo funereo all’amico scomparso, ma il tono non è mai troppo cupo (per rimanere in zona grunge, si pensi per contrasto a un disco come Dirt degli Alice in Chains, intriso di sentimento di morte, ma sempre in visione pessimistica e nichilistica): qui l’evocazione della morte e della dipendenza è continua, ma l’atteggiamento è sempre di lotta, di vitalismo, di rivolta al dolore.

SAY HELLO 2 HEAVEN, ANDY!

In apertura vengono poste Say Hello 2 Heaven e la lunga Reach Down, i due pezzi più esplicitamente rivolti a Andy Wood e musicalmente più devote al culto zeppeliniano. E poi ancora il singolo Hunger Strike, di certo il brano più noto del disco, sorretto dagli intrecci vocali di Cornell e Vedder, di fatto il pezzo più vicino al sound che sarà poi dei Pearl Jam. A chiudere il lato A la vibrante ballatona Call me a Dog, riproposta anche dal Cornell solista nei suoi ultimi concerti.

Ma il disco non ha particolari cadute di tono nemmeno nel lato B: la toccante e ricca di pathos Times of Troubleuna Wooden Jesus con echi quasi tribali (percussioni e tocchi di banjo), mentre Four Walled World è tutta sulle spalle di Cornell, in una delle sue interpretazioni migliori di sempre. Chiude il lotto la marcetta su tappeto d’organo All Night Thing.

Musica senza sovrastrutture, pensata come pura catarsi, e non per vendere un disco in più. La band così come era stata pensata non è sostanzialmente mai esistita e si è esibita live solo una manciata di volte. Il disco è in realtà una lettera d’addio a un amico, un ritrovarsi di ragazzi dai destini comuni di fronte al feretro di uno di loro, inghiottito da sé stesso. Una fotografia di un’epoca e di un modo di essere musicisti, amici, uomini. Dovrebbe essere quanto di più demodé possa esistere oggi, dopo 30 anni, e lo è: ma suona sempre, incredibilmente bene, ad ogni età. Forse perché certi sentimenti non cambiano mai.

Nicolas Merli 

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