Le migliori uscite discografiche della settimana| 24 febbraio 2023

Corposo numero di uscite discografiche della settimana. In questo numero abbiamo ascoltato gli album di Gorillaz, Shame, Algiers, U.S. Girls, Philip Selway e Gina Birch.

a cura di Giovanni Aragona, Chiara Luzi, Cristina Previte e Flaminia Zacchilli

15:11:05  – 24/02/2023



GORILLAZ – CRACKER ISLAND
(Electro-pop, Art Pop, Trip Hop)

È perfettamente giusto che i Gorillaz siano una band animata. Come tutte le icone dell’animazione, da Betty Boop a Bugs Bunny passando per le Principesse Disney, hanno un talento tutto speciale e più raro di quanto sembri: cambiare con i tempi senza perdere l’impronta di sé stessi. Damon Albarn conduce i suoi pupilli digitali alla maturità con un album che racconta, come e più che mai, l’esperienza vissuta di chi lo circonda.

Cosa significa trovarsi in un mondo dove tutto è strano, dove le regole che dettano lo stile di vita e i rapporti umani sfuggono continuamente di mano e la possibilità di creare qualcosa di buono con le proprie vite pare sempre più nebulosa e assurda? Sono domande senza una risposta certa all’orizzonte, e Damon Albarn non pretende di trovare per esse una risposta. Ma assieme ad alleati vecchi e nuovi, dal sempre imponente Nile Rodgers a scelte mainstream, come Bad Bunny, non prive di classe, vuole farci sapere che sull’isola dei cracker ci siamo tutti e non dobbiamo sentirci soli.
(F.Z)


U.S. GIRLS – BLESS THIS MESS
(art pop, dance)

Chi segue la carriera di U.S. Girls, il progetto di Megan Remy, è ben abituato all’eclettismo che la caratterizza. Non sorprenderà quindi la quasi totale svolta dance intrapresa nel nuovo lavoro in studio Bless This Mess. Remy non sconvolge totalmente il suo percorso, l’elemento pop è stato sempre presente nella sua musica, in questo nuovo lavoro però si tuffa a capofitto in un mare fatto di groove funk assemblati a synth puramente anni ’80 che rimandano a un paesaggio disco-retrò storicamente ben definito.

Già nel precedente album, Heavy Light, Remy aveva iniziato a intraprendere questa via, imbevendo il suo stile con una bella quantità di funk, ma in Bless This Mess la sua posizione è molto netta. Brani come Tux (Your Body Hills Me, Boo), sarebbero stati perfetti per animare una serata di un club Newyorkese nei primi anni ’80. Il fatto di aver registrato il disco fra la gravidanza e la nascita dei gemelli ne ha ovviamente influenzato le tematiche, a tal proposito la copertina è ben esplicativa. Un perfetto esempio in tal senso è il brano omonimo, Bless This Mess: una classica ballad in cui il flusso di coscienza di Remy si immerge negli angoli più nascosti del suo subconscio. Questo nuovo capitolo di U.S.Girls è una raccolta di dance luminosa e glitterata, che non scende mai nel banale ma possiede una eleganza sonora che la rende forte e credibile.
(C.L)


PHILIP SELWAY – STRANGE DANCE 
(art-pop)

Giustamente osannato come uno dei batteristi più significativi del rock moderno a causa del suo primario ruolo di tre decenni in Radiohead, voleva mettere da parte lo sperimentalismo sfrenato e sposare il songwriting sottile e minimalista. Su questo nuovo disco solista certamente lo raggiunge, con un manipoli di belle canzoni impostate su territori delicati e soffusi. La sua musicalità innata traspare e c’è un’onestà accattivante nei testi che filtra attraverso la musica stessa. Ennesima prova superata.
(G.A)


GINA BIRCH – I PLAY MY BASS LOUD
(post-punk)

Gina Birch è la co-fondatrice delle icone The Raincoats, la band post-punk londinese. capaci in un breve periodo tra il 1979 e il 1984, hanno guadagnato un seguito di culto per la loro musica discordante ma affascinante. Il suo album solista è un disco politico come pochi in circolazione.

Prodotto da Martin “Youth” Glover, l’album offre un aggiornamento piacevolmente solido dello stile delle Raincoats. Diverse tracce hanno un suono elettronico e le incursioni noise con Thurston Moore dei Sonic Youth alla chitarra in “Wish I Was You”, il suono ritorna aggressivo. La Birch narra le sue canzoni con violenza  ma anche con umorismo e intelligenza. Un disco maturo per ascoltatori già ben rodati. Il disco è prodotto dal bassista dei Killing Joke, Youth: motivo in più per consumarlo.
(G.A)


SHAME – FOOD FOR WORMS
(post-punk)

Il terzo album dei rocker britannici si allontana dal chiacchierone post-punk, enfatizzando la melodia, il piano sgangherato e le riflessioni sull’amicizia.  Gli Shame tornano a splendere con un nuovo e fresco disco Food For Worms.

Le dieci canzoni sono il frutto di un approccio diverso rispetto al passato, sono definite da un senso intrinseco di unione. In apertura Finger Of Steel, una canzone energica che, in modo nervoso, avvolge il cantato melodico di Charlie Steen, Yankees, procede lentamente prima di cambiare ritmo sul basso sensuale, Alibis è una canzone molto intensa e viscerale, Adderall una tenera ballata che mette in primo piano la bellezza infantile, le distorsioni si lasciano andare a un culmine di sogni infranti, lasciando spazio a un ritornello orchestrale, rendendola la più completa del disco.

Il tocco acustico di Orchid ha un assaggio armonico con un’eccezionale esibizione vocale. Le seconde voci di fondo, immerse nella distruzione, uniscono il vero momento più alto di quest’opera con la composizione The Fall Of Paul. Gli animi subiscono un cambio di personalità grazie al drammatico momento dipinto in Burning By Design, un brano introspettivo che ha nelle sue corde un ampio raggio lirico e vocale da brividi. Procediamo poi con Different Person che evoca l’ansia di guardare dentro l’anima di qualcuno a te vicino. ” You say you’re different, but you’re still the same!” Steen urla, come se cercasse disperatamente di convincersi. La chiusura esprime tutto il suo sound monumentale in All The People, per immergersi verso un finale emozionante.

Il primo ascolto di “Food For Worms” ci trascina senza dubbio in qualcosa di nuovo e irripetibile. Gli Shame sono riusciti ancora una volta a rapire il cuore dell’ascoltatore.
(C.P)


ALGIERS – SHOOK 
(art punk, post punk. art rock)

La tavolozza sonora degli Algiers viene infarcita da nuovi suoni: oltre al post-punk, su Shook, il loro quarto full-length, i colori si espandono ancora di più, incorporando notevolmente un’influenza più consapevolmente jazz e hip-hop. Il disco è colmo di tante idee, alcune delle quali sono state lucidate alla brillantezza, altre delle quali non sono state completamente realizzate. C’è chiaramente un grande lavoro all’interno ma manca un filo conduttore omogeneo. Più che un disco degli Algiers sembra un lavoro ben riuscito degli Young Fathers e le tematiche sono forti: dei veri macigni sullo stomaco. Apprezzabile.
(G.A)



 

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