17:58:11 – 25/02/2020
Gli indimenticabili anni ’80… sarà vero? Ciò che è vero è che gli 80’s sono un decennio che difficilmente si può confondere, un lasso di tempo che ha saputo forgiare un’estetica dal carattere deciso, a 360. E la musica non ha fatto eccezione, con ritmi e sound del tutto peculiari, in alcuni casi nati e svaniti in due lustri.
Gli anni ’80 segnano l’ingresso dell’elettronica nella musica, è il momento dei primi brani dove synth e strumenti musicali formano un connubio a volte ancora innaturale, dove il suono si fa sintetico e artefatto. In ogni caso se ascoltiamo un brano di tre decenni fa riusciamo immediatamente a storicizzarlo, senza dubbi.
Shout, cavallo di battaglia dei Tears for Fears, non fa eccezione: opener dell’album Songs from the Big Chair – classe 1985 e secondo disco dei TFF – il brano sembra essere l’emblema di questo periodo, conosciuto dal grande pubblico più del geniale duo elettronico che l’ha creato. La canzone è un preludio new wave al disco, con i suoi clap, i synth, un basso imprescindibile che non balla su troppe note e il cantato calante alla Dave Gahan. Il ritmo è slow e il ritornello diviene una nenia che si ripete per tutto il brano la cui forza è quella di una evoluzione costante della musica che crea stanze sonore sempre differenti e gioca su nuovi ritmi, mentre Orzabal e Smith cantano ossessivamente all’unisono. Shout è un puzzle dove man mano si aggiungono pezzi, fino alla cesellatura finale, alla perfezione di un brano che strizza l’occhio al progressive rock. Il suono del basso è saturo, sembra dare il viatico all’oscurità, ma se Shout è un biglietto da visita che lascia ben sperare verso arie dark, già dal secondo brano, The Working Hour, l’atmosfera si capovolge e linee di sax malinconico prendono il sopravvento teletrasportandoci in una metropoli, quando si esce dall’ufficio e si realizza, in quel momento, che qualsiasi cosa decideremo di fare rientrerà, volenti o nolenti, nel mood che informa la settimana produttiva. Come dire che staccare dal lavoro è un’utopia.
Sorpassato il secondo brano – e lo shock di non poter godere un album dalle tinte scure – ci accorgiamo come il disco sia un piccolo scrigno eclettico dove le restanti canzoni dipingono un soundscape variegato, dove risuonano bellissime hit pop come Everybody Wants to Rule the World e Head Over Heels, ma anche piccole gemme rock come Broken dove il cantato parte a fine brano per introdurre l’outro; a seguire la ballata I Believe e Listen, ultimo brano dell’album, ricamato da orpelli elettronici e da cori angelici.
Non abbiamo molti dubbi: Songs from the Big Chair è una sfilata di hit che attinge alla ritmica elaborata dei Talking Heads, alle melodie più squisitamente pop dei Beatles e alle atmosfere decadenti della new wave. Il risultato è un album che trascina con sé un po’ di spleen, forse dovuto al particolare momento storico in cui iniziavano a farsi sentire più che mai il disincanto e un senso di sconfitta personale. Bisognava lottare per nuovi ideali e rinnovate narrazioni e l’unica via di salvezza era l’ibridazione, confondere le acque di uno stile che troppo facilmente può essere ricondotto a una cifra univoca. Siamo in pieno Postmodernismo e in musica se non si meticciano i generi si è destinati a cadere nel dimenticatoio. Non è il caso dei Tears for Fears che nascono per intrattenere i nostri genitori e a distanza di qualche anno – quando siamo ancora nel Postmodernismo fino al collo – fanno compagnia anche a noi. In fondo non è cambiata poi molto la storia, sono passati trentacinque anni, ma quello spleen proposto dal duo ci appartiene ancora.
Martina Lolli