29/04/2024
Il titolo del disco prende ispirazione dal famoso illustratore statunitense Norman Rockwell

 

 

Genere: Psych pop, art pop
Etichetta: Polydor – Interscope 
Release: 30 agosto

Norman Fucking Rockwell! si presenta come il perfetto manifesto discografico di Lana Del Rey. Potrebbe “passare alla storia” come il suo album-biglietto da visita. Il problema fondamentale è che anche i suoi lavori precedenti lo erano; da un lato, quindi, preso singolarmente, abbiamo un album magnifico, elegante, scritto bene e prodotto da Jack Antonoff in maniera assolutamente magistrale. Dall’altro, però, non si discosta affatto dal percorso artistico affrontato da Lana Del Rey da ormai quasi dieci anni.

Ci sono gli echi trip-hop, i testi velati di malinconia, le atmosfere noir, c’è il rock psichedelico, la West Coast americana, le drammatiche ballad. Norman Fucking Rockwell! dunque sorprende davvero poco l’ascoltatore, se non per il fatto che Lana riesce ancora a farsi apprezzare e produrre pezzi godibilissimi senza variare di troppo la sua “formula vincente”, il che comunque non è scontato. Non è un album fotocopia degli altri, ma neanche un punto di svolta nella sua carriera.

Si potrebbe tentare un parallelo azzardatissimo con il nostrano, amato/odiato Calcutta e il suo ultimo album, Evergreen. L’intenzione generale, infatti, è quella di creare un mondo musicale trascendentale, un pop senza tempo – appunto evergreen – e in questo la coppia Del Rey – Antonoff eccelle. Il punto più alto e sublime viene raggiunto nella splendida Venice Bitch, brano lungo quasi 9 minuti, in cui la voce di Lana e le sue parole si fondono perfettamente con gli assoli, le code e le divagazioni sognanti che si susseguono.

In generale, tanto le sue canzoni quanto il personaggio di Lana in sé sembrano aver acquistato in quanto a maturità. E’ come se Lana avesse scalato finora una montagna molto alta, e al momento pare aver raggiunto la vetta. L’ha fatto utilizzando però sempre la stessa “attrezzatura”, ed ecco quindi che seppur differenti nei dettagli i suoi lavori ci suonano quasi sempre familiari e riconoscibili. California, ad esempio, sembra una West Coast (dall’album Ultraviolence, del 2014, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys) riadattata e reinterpretata dal punto di vista di Antonoff, o comunque della Lana di qualche anno più tardi. Adesso gli arrangiamenti sono più essenziali, raffinati, meno pomposi o complessi come in Born To Die o Ultraviolence, ma mantengono la monumentalità e la grandiosità a cui Lana ci ha abituato.

I testi, ugualmente, seguono la tradizione disillusa e tipicamente americana che l’ha sempre contraddistinta, tornano quindi insistentemente il tema del ritorno, la California, le beaches, la summertime sadness, il suo baby blue.
Ancora una volta la “Patty Pravo d’oltreoceano” si ripropone al pubblico col rischio di rappresentare un mero cliché, ma si salva in calcio d’angolo riuscendo a partorire un album di elevato valore artistico, e soprattutto molto maturo: ci auguriamo quindi che il suo prossimo passo sia quello di tornare a stupirci con qualcosa di radicalmente diverso, ma altrettanto bello.

Michele Ruggiero 

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