28/04/2024
'King’s Mouth' è la quindicesima fatica dei Flaming Lips

 

 

Genere: Neo-psych, experimental rock
Etichetta: Warner
Release: 19 luglio

Qualcosa doveva necessariamente cambiare dopo la paranoia alienante degli ultimi (ottimi) tre dischi di Wayne Coyne e soci. In quei dischi era proprio la difficoltà a uscire da un tunnel distopico a fare da conduttore. Allo stesso tempo, l’immaginario flaminglipsiano fantastico, colorato e orgogliosamente “pop” – figlio di dischi come Yoshimi Battles the Pink Robots – veniva letteralmente annientato dal rumore acido, dall’incompiutezza voluta dei brani e dal pessimismo cosmico.

Analizzata da un’altra prospettiva, quella fase dei Flaming Lips equivaleva al capovolgimento, sull’asse valoriale, del Mito della Caverna di Platone. Coyne nel 2009 usciva dalla fantomatica caverna in cui l’LSD proiettava sul muro robottoni rosa, animali mitologici e avventure cosmiche, per poi scoprire rovinosamente in che mondo di merda gli esseri umani sono costretti a vivere e a convivere. La domanda che si poneva l’ascoltatore medio dei Flaming Lips, prima dell’uscita anticipata di King’s Mouth, era questa: una volta che le creature magiche sono già state vivisezionate e seppellite, come si fa a tornare indietro?

La risposta è da ricercare senz’altro in un audace tentativo di ritrovare la mitopoiesi dei tempi migliori. King’s Mouth, quindicesima fatica dei Nostri, è la risposta più gradita a quella domanda. L’opera in questione non è solo un disco: è una visione salvifica e ottimistica (sebbene delirante) con lo spessore narrativo di una fiaba senza età. Il disco è solo una piccola parte di un progetto enorme. Coyne ha già messo la firma su un tomo e sull’installazione artistica di una testa gigante, in cui chi vuole può entrare ed essere bombardato da un caleidoscopio onirico di luci e immagini messe in ordine dalla voce di Mick Jones.

L’ex Clash è attivo come narratore nel disco, e la sua voce solenne introduce tutti i passaggi del concept. Una piccola grande comunità unita in un’epoca estemporanea (‘We don’t know how and we don’t know why’), guidata da un magico gigante, trovatosi Re per la morte di sua madre e venerato da tutti. Analizzando le sonorità, King’s Mouth riporta la compagine di Wayne Coyne ai tempi del loro periodo più popolare. Ci riferiamo indubbiamente a quello in cui fu plasmato il dittico The Soft Bulletin/Yoshimi Battles The Pink Robots, con tanto di firma con la Warner e dichiarazione di guerra allo psych-pop eufonico dei Mercury Rev.

Quasi tutti i brani di questo lavoro, infatti, tornano a quei canoni di punta, ed è possibile ritrovare più o meno gli elementi alchemici che hanno reso i Flaming Lips un pilastro del genere. Ci riferiamo al groove psichedelico alla chetichella in The Sparrow, o a quello lesclaypooliano irresistibile di Feedaloodom Beedle Dot, al dream pop zuccheroso della nenia Giant Baby e di How Many Times – forse concepita in funzione della musa Miley – fino a sonorità che rimandano ai Beatles più sperimentali, come ascoltiamo nel singolo All For the Life of the City e nella traccia eponima.

I momenti più alti del lavoro sono senz’altro quelli in cui la psichedelia decide di deflagrare nello space rock barrettiano, e questo è un discorso che ritroviamo da vicino in Mother Universe e nella superba Electric Fire. Nella seconda parte del disco, invece, troviamo l’ipnotico incedere funebre di basso e batteria – con tanto di canti gregoriani – della riuscita Funeral Parade. Insomma, per farla breve: King’s Mouth è un disco che sa rapire e trascinare via con sé, nonché la migliore delle risposte a chi pensava che Coyne non avesse più niente da dare o da dire. È tornato nella caverna con l’intenzione di rimanerci? Chissà. Quel che è certo è che per Wayne Coyne la follia è normalità e la normalità è follia, e forse la risposta per silurare Topolino la Warner ce l’ha in casa da tempo senza saperlo.

Vincenzo Papeo

 


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