28/04/2024
The Stone Roses è l'album omonimo della band. Il disco, pubblicato il 2 maggio '89, è stato registrato ai Battery Studios di Londra da John Leckie.

The Stone Roses è l’album omonimo della band, pubblicato il 2 maggio 1989. Registrato ai Battery Studios di Londra con il produttore John Leckie, l’album è considerato fondamentale per il genere Madchester, nonché precursore del Britpop.

 

10:34:47  – 02/05/2020

La genesi 

Il debutto sulla lunga distanza degli Stone Roses è uno di quei dischi sui quali è stato scritto molto di più in relazione a quanto sia stato influente rispetto a quanto sia meraviglioso come lavoro in sé. Qualunque trattazione o celebrazione mette in primo piano il lascito di questo disco rispetto al proprio contenuto. Chi ne scrive ci tiene di più a far sapere come buona parte del Britpop sia stato ispirato da queste 11 canzoni. Il sottoscritto proverà a far qualcosa di diverso. Cercherò di focalizzare l’attenzione sulla bellezza emanata da un disco semplicemente magnifico, senza stare a pensare a quanto possa aver ispirato questi o quegli altri. C’è chi sfrutta la tendenza qui sopra per affermare che alla band è riuscito un disco e ha vissuto una carriera di rendita. Nossignori, perché intanto il disco è il culmine di un percorso durato anni e infarcito di grandi singoli. Non per ultimo, anche se dopo non c’è stata continuità questo lavoro è talmente perfetto che l’autorevolezza è più che meritata, altroché se è meritata.

L’interazione unica tra i jangle chitarristici e la sezione ritmica

Il primo, e più importante, aspetto che rende così spudoratamente bello questo disco è il modo in cui i ricami messi in piedi da John Squire con la chitarra si integrano con il groove dato dal basso di Mani e dalla batteria di Reni. Il tutto costruito per creare un sound dai riferimenti molto chiari ma, allo stesso tempo, innovativo al massimo. Squire si ispira moltissimo a Roger McGuinn dei Byrds e sembra usare il plettro sulle sei corde della propria chitarra come un ago, le cui decorazioni danno colore e vivacità al tessuto sonoro molto diverso e decisamente più contemporaneo, vista l’indubbia devozione alla club culture e al suo tempio per eccellenza degli anni Ottanta, ovvero l’Hacienda, che si trova proprio nella stessa città da cui proviene il quartetto, ovvero Manchester.

La vitalità di una sezione ritmica così è unica e irresistibile, e Squire dà a essa una concretizzazione perfetta non solo dal punto di vista del colore, ma anche della melodia. Continui gioielli escono dalle dita del chitarrista con un impatto a dir poco torrenziale, associandosi in pieno con l’altrettanto fervida fantasia del bassista e del batterista, in modo che le canzoni abbiano una forte connessione tra loro ma non ci sia mai alcuna ripetizione. Ogni volta il grado di apertura melodica e di ipnotismo, nonché il bilanciamento buio/luce sono diversi, e ognuna di queste combinazioni fa centro pieno. Chiunque provi a pensare a un disco che mantiene un livello stellare dal primo all’ultimo secondo, senza calare mai, non può che considerare questo.

Il carisma di Ian Brown

Per assurgere all’immortalità, però, le canzoni vanno anche, e soprattutto cantate, e qui entra in gioco uno dei più carismatici frontman di sempre, Ian Brown, soprannominato King Monkey per le proprie movenze uniche sul palco, che davvero riescono a essere scimmiesche e regali allo stesso tempo. Ecco, il palco, il presunto punto debole di Brown, visto che le note prese male si sprecano e chiunque ascolti una registrazione live degli Stone Roses rischia di essere sconfortato da quanto il cantato sia fuori fuoco ai limiti dello stonato. Chi però ai concerti assisteva, sapeva che la storia era molto diversa, perché Ian, al pari di David Bowie e di Liam Gallagher, è uno di quegli artisti che sembrerebbe non fare niente di particolare, ma che emana un carisma illuminante, e davvero l’aspetto tecnico della performance vocale va nemmeno in secondo piano, ma in quarto o in quinto.

Toltoci un altro sassolino dalle scarpe rispetto al pensiero unico dei detrattori, parliamo di quello che succede sul disco, ovvero di un timbro vocale magnetico e coinvolgente, di testi efficacissimi e di un’eccellente capacità di interpretare al meglio sia ciò che si sta cantando, che il contesto musicale attorno a sé, mettendoci ogni volta la tonalità e l’espressività più adatte. Inutile star qui a fare degli esempi: certi passaggi di questo disco sono scolpiti nella pietra del meglio della musica di ogni epoca.

‘The Stone Roses’, il disco perfetto

Indubbiamente è giusto portare lo sguardo oltre allo stretto contenuto musicale per analizzare la grandezza di quest’opera. La maniera unica in cui un certo illustre passato viene calato nel presente. Dall’estetica di tutto il progetto, alla riuscitissima copertina, al look dei musicisti, al descritto modo di porsi del frontman. Aggiungiamo la capacità di intercettare e esprimere al meglio un sentire comune di una sotto cultura, sono tutti aspetti che vanno considerati. E nessuno nega che questo potrebbe essere stato l’ultimo disco della storia della musica con un lascito così significativo, ed è quindi sacrosanto metterlo in evidenza.

Però tutto questo, per usare un’espressione tanto in voga oggigiorno, è un po’ sfuggito di mano, ed è quindi necessario sottolineare che, per prima cosa, questo è uno dei dischi più belli ed emozionanti che vi potrà mai capitare di ascoltare, perché ha ispirazione, personalità e capacità di catturare l’ascoltatore a livelli difficilmente raggiungibili. In una parola, è perfetto.

Stefano Bartolotta 

 

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