L’umanità dietro la perfezione: un “miracolo” chiamato Astral Weeks

Astral Weeks è il secondo album di Van Morrison, uscito nel 1968. Grazie a questo secondo lavoro l’artista ebbe grande riscontro di critica.

17:04:40  – 29/11/2020


Ci sono dischi al cospetto dei quali sembra davvero impossibile mettere insieme parole adeguate a descriverne la bellezza, se non quella di invitare calorosamente quelli che leggono a recuperarne l’ascolto. Ma esiste davvero qualcuno che on abbia ancora ascoltato Astral Weeks di Van Morrison? Ovviamente esistono, purtroppo – ed è un peccato soprattutto per loro, ma probabilmente non fra chi legge qui.

Una freddezza solo apparente

Domanda retorica che serve però da spunto per capovolgere i termini di un qualsiasi articolo che abbia ad oggetto questo disco: molti di coloro che amano Astral Weeks lo hanno ascoltato tante volte senza davvero innamorarsene, riconoscendo il suo immenso
valore, però inizialmente classificato come “freddo”. Qualcun altro lo avrà riconosciuto fin dall’inizio, certamente, ma esiste un preciso istante in cui dischi di tale fattura si rivelano a chi ne fruisce, un istante in cui una serie di concatenazioni – chiamatela una particolare predisposizione dettata dalle contingenze del momento o dalla sensibilità a certi temi – si verificano esattamente come quello che dovette succedere ai Century Sound Studios di New York quando Van Morrison si incontrò con quelli che avrebbero suonato il suo capolavoro, senza peraltro quasi conoscerli.

Van Morrison e il disco definito “mistico”

Il fatto è che ci sono dischi che come si rivelano in maniera estemporanea all’ascoltatore così incredibilmente si rivelano anche al suo autore (o ai suoi autori) nel momento stesso in cui prendono forma, facendo vacillare anche i più razionalisti atei sulla effettiva possibilità che siano nient’altro che emanazione del divino. Non è un caso che venga spesso accostato ad Astral Weeks l’aggettivo mistico. La storia ci dice che questo è quello che accadde: due sessioni da 6 ore l’una in cui prende vita il secondo disco solista di Van
Morrison. A incontrarlo, dall’altro lato, chi lo ascolta. Per chi scrive, il momento è avvenuto molti anni dopo il suo primo ascolto, quando ad un certo punto ho capito, ho finalmente sentito quello che era Astral Weeks: una specie di miracolo.

Un capolavoro in equilibrio fra generi

Astral Weeks è un disco per spiriti derelitti pur essendo fra i più sofisticati esemplari dell’incontro fra generi musicali mescolando jazz, folk, blues e musica da camera: un’opera che per rivelarsi al mondo ha scelto un uomo – George Ivan Morrison, irlandese di Belfast – che più di ogni altro conosce gli abissi del successo e della messa al bando, scappato da una New York diventatagli ostile dopo essere stato ai vertici delle classifiche di vendita con quel amato-odiato singolo “Brown-Eyed Girl”.

Lo ritroviamo in quegli studi nel suo appuntamento col destino con in tasca una manciata di brani scritti nel periodo forse più buio della sua esistenza. In quegli studi dovrà presentarli al cospetto di musicisti dal curriculum spaventoso, tanto da sentirsi persino inadeguato al compito. Eppure qualcosa di incredibile accadde, come spesso capita per certi capolavori: non servono lunghe sessioni, ci si trova senza nemmeno doversi spiegare e in pochissimo tempo gli impressionanti fraseggi di basso di Richard Davis si inseriscono a meraviglia nel cantato un po’ nero e un po’ celtico, ma altrettanto incredibile di Van Morrison, assieme ai vari inserti fra vibrafono, puntate di sax, clavicembalo e flauto.

L’alchimia che sembra un miracolo

La libertà espressiva impressionista è al centro della scena, pur se può sembrare incredibile che certe improvvisazioni di stampo jazzistico possano aver raggiunto un simile livello di perfezione senza essere state faticosamente provate e riprovate. Una libertà che impedisce persino di seguire in maniera lineare lo svolgersi dei testi: quel vortice di parole trascinate dalla voce sofferta e potentissima di Van Morrison non può essere seguito davvero senza perdere il bandolo della matassa complessiva. In fondo, non serve nemmeno esaminare e analizzare parola per parola quello che sta succedendo: la commozione che provoca Astral Weeks risiede nell’alchimia miracolosa dell’insieme. È come se – pur non sapendo minimamente di cosa parli il disco – si riesca ad entrare nel suo spirito, senza troppe parole né spiegazioni.

L’amore che ama l’amore che ama amare l’amore

Eppure è anche lì – nei testi – che si stagliano alcune delle immagini più commoventi mai impresse in musica. Un disco che si apre con queste parole “Se mi avventurassi sulla scia/fra i viadotti dei tuoi sogni/Dove bordi d’acciaio mobile s’incrinano/e la cunetta e le strade secondarie finiscono/Riusciresti a trovarmi?” mette subito in chiaro circa la grandezza dei suoi versi. Poesia? No, canzoni.

Memorabili, impressionistiche istantanee di un’umanità derelitta e disperata, costruite in un modo tale da non farti girare la testa – superiore, disgustato – da un’altra parte. Riusciresti a trovarmi, anche se non splendo? Anche se mi nascondo?Anche se vengo additato da tutti? Almeno così “l’amore che ama l’amore che ama amare” cantato in Madame George, per una volta riuscirebbe a trionfare. Eccome se trionfa, l’amore di chi sa riconoscerlo in Astral Weeks.

Patriza Cantelmo 

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