27/04/2024
Born to Run è il terzo album di Bruce Springsteen. Il disco ha segnato una svolta per il successo dell'artista confermandosi anche presso il grande pubblico.

Born to Run è il terzo album di Bruce Springsteen. Il disco ha segnato una svolta per il successo dell’artista confermandosi anche presso il grande pubblico.

13:21:57  –  25/08/2020


Greetings from the Record Plant, NY

Quando esce Born To Run, Bruce Springsteen non è ancora esploso in tutta la sua esuberanza artistica e commerciale. Le etichette che gli ha cucito sul giubbotto di jeans la Columbia, di “new Dylan” in occasione di Greetings From Asbury Park, NJ, e di “street poet” per lanciare The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle, non lo soddisfano.

Non si sente né l’uno né l’altra cosa. Lo intriga invece ciò che ha scritto Jon Landau, critico di Crawdaddy e Rolling Stone, che raccontando un concerto al Harvard Square theatre assicura di avere visto il futuro del rock’n’roll e si chiama Bruce Springsteen. Una investitura che stimola il musicista e porta bene al giornalista, tanto che il Boss lo aggrega al team di produzione.

È ciò che mancava in fase di organizzazione del lavoro: Landau spinge il gruppo a trasferirsi dai 914 Sound Studios ai Record Plant di Manhattan, dove il lavoro procederà più spedito. Non è tutto: registrata Born to Run, David Sancious e il batterista Ernest Carter lasciano il posto a Roy Bittan e Max Weinberg, pedine fondamentali per il presente e il futuro.

We gotta get out while we’re young

Born To Run ha quattro brani per lato. Ma è da Night, la terza canzone, che il disco prende a mostrare unitarietà: Thunder Road e Tenth Avenue Freeze-Out, benché tracce di valore, fanno quasi da preludio. È Night a stabilire il passo dell’epica springsteeniana: la tua vita e il tuo lavoro sono una dannazione, ragazzo, fino a quando ti butti nella notte correndo per inseguire un sogno e un amore.

O al contrario, come ammonisce Backstreets che piange promesse non mantenute e giuramenti violati, per svegliarti a mani vuote. Born to Run, macinata a lungo in anticipo dalle radio della East Coast, apre a sorpresa la B side. Illuminata dal suono del glockenspiel, la canzone diventa il biglietto da visita che Springsteen porge al mondo intero: baby, questa città è una trappola mortale, dobbiamo uscirne finché siamo giovani. Le parole di She’s the One sono di un innamorato disposto a perdonare tutto alla sua donna, anche le bugie che probabilmente occultano i tradimenti.

The Heist

Musicalmente dall’andamento antiteco alle parole, She’s the One sprigiona quell’energia che in Meeting Across the River (sulle prime introvabili copie, The Heist, “il colpo”) si trasforma in rarefatta tensione che si respira. Un noir che pare scritto a quattro mani con Elmor Leonard. Quattro sono anche i musicisti che firmano il registro delle presenze: Roy Bittan, il contrabbassista Richard Davis, Springsteen sola voce, e la tromba di Randy Brecker che sussurra, si impenna, stordisce per quanto brilla di pathos.

Il muro di suono modello Phil Spector cui Springsteen ambisce è accantonato. Meeting Across the River è un ‘dramma da camera’ ma Jungleland chiude il disco con fare da kolossal. Oltre 9 minuti introdotti dal violino, poi quella esplosione di chitarre con riff che sanno degli Who di Tommy e Next, gli archi fluenti, il solo infinito – per durata e ispirazione –, che guadagna a Clarence Clemons un posto nell’olimpo dei musicisti che con una sequenza di note dischiude un mondo.

E Springsteen che lascia fluire la musica quasi senza controllo, su cui pianta fonemi come chiodi su un porticato. È la posa dell’ultima pietra di una cattedrale che inaugura un culto e sancisce la definitiva consacrazione di Bruce Springsteen.

Andrea C. Soncini 

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