Ventuno anni da ‘Deserter’s Songs’ dei Mercury Rev, fondamentale punto di riferimento generazionale

 

Deserter’s Songs, oltre a essere un disco meraviglioso, è anche la dimostrazione che, anche nell’era pre internet, ogni disco ottiene visibilità e consensi non solo per la propria qualità intrinseca, ma anche in base ai trend del mercato discografico nel periodo in cui viene pubblicato. Jonathan Donahue, una delle due menti creative della band, insieme a Sean Thomas Mackowiak, universalmente conosciuto come Grasshopper, l’ha detto chiaro e tondo durante il tour celebrativo dei vent’anni del disco, nel 2018: i Mercury Rev avevano investito tempo, energie e denaro nel precedente See You On The Other Side, ma pubblicare un lavoro del genere nel settembre del 1995 è equivalso a un suicidio commerciale in piena regola, visto che, in quel periodo, l’attenzione di tutti era concentrata quasi esclusivamente sul britpop.

Deserter’s Songs, invece, esce sempre a settembre, ma nel 1998, ovvero in un periodo perfetto da quel punto di vista, perché non solo il britpop stava svanendo dai radar del grande pubblico, ma la musica raffinata e introspettiva andava per la maggiore, sulla scia di “OK Computer”. Risultato: disco dell’anno per NME e un 1999 passato in tour, per una carriera finalmente decollata. Certo è che il periodo discografico favorevole può essere sfruttato a dovere solo se il prodotto risulti di alto livello, e il disco è uno di quei lavori che possono piacere o non piacere per via del gusto personale, ma che nessuno può oggettivamente descrivere in modo negativo quando va ad analizzarlo. Ogni singolo momento, infatti, è formalmente inattaccabile sotto ogni punto di vista e, se si ha la giusta disposizione mentale, non può che coinvolgere ed emozionare. Per chi non dovesse aver mai ascoltato (pessima scelta, rimediate immediatamente), parliamo di canzoni prevalentemente tranquille e delicate, con un suono gentile e caratterizzato da stratificazioni e armonie che lo rendono avvolgente ed efficacissimo.

Melodie nitide e cristalline vengono valorizzate da arrangiamenti complessi ma mai ridondanti, capaci di creare un vero e proprio mondo senza risultare invadenti e concedendo il giusto spazio alla parte vocale e ai testi. Un risultato del genere è anche merito del produttore, ovvero un Dave Fridmann in stato di grazia, visto che stava lavorando contemporaneamente a questo disco e a ‘The Soft Bullettin’ dei Flaming Lips. Come in molti grandi dischi, i concetti generali possono subire variazioni per rendere il lavoro complessivo ancora più interessante, senza che venga meno la coerenza di fondo. Così, qui abbiamo alcuni stacchi strumentali e canzoni che esplorano altri territori, pur mantenendo le caratteristiche di base, come ad esempio una Opus 40 più ambiziosa e votata alla grandeur, una The Funny Bird decisamente cupa e disturbante, e la conclusiva Delta Sun Bottleneck Stomp che fa ballare l’ascoltatore, dopo che tutte le altre canzoni o hanno fatto riflettere e spinto a guardare dentro se stesso.

Il resto, poi, lo fanno la citata parte vocale coi testi. La voce di Donahue è indubbiamente una delle più espressive e riconoscibili che si possano trovare, e questo valeva all’epoca di questo disco e vale ancora oggigiorno. Quell’equilibrio tra fragilità e psichedelia, tra toni acuti e introspezione, tra leggerezza e profondità, lo si può trovare solo in un timbro vocale come il suo, che risulta semplicemente unico. I testi, molto basati sul tema del lasciarsi e di terminare non tanto una storia d’amore ma un progetto in generale, sono candidi ma mai banali e si associano perfettamente alla voce che li canta e al suono che li accompagna. “Bands, those funny little plans that never go quite right” è probabilmente il passaggio più celebre del disco (dall’iniziale Holes) ed esemplifica perfettamente i pregi di una scrittura sentita e arguta allo stesso tempo.

In definitiva, ancora oggi, Deserter’s Songs è un disco così ben riuscito da risultare un punto di riferimento per molte cose che sono arrivate dopo e che comunque non sono mai giunte alle altezze qualitative ed emozionali di questo lavoro. Per fortuna, è uscito nel periodo giusto, e ci ha messo poco a farsi ascoltare da un gran numero di appassionati: immaginate che perdita sarebbe stata se fosse stato sommerso da qualche tendenza contraria a esso.

 

Stefano Bartolotta

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