Vent’anni da ‘The Fragile’: la metamorfosi di Mr. Self Destruct in un individuo-isola meravigliosamente fragile.

 

Erano tempi bui per Trent Reznor. Ciò che capitò dopo l’uscita di The Downward Spiral non fu una situazione facile da gestire per l’istrionica mente a capo del progetto Nine Inch Nails: Reznor usciva reduce dall’iconico “impero di fango” generato da un album più grande di lui, e il futuro sembrava essere di natura spaventosamente incerta. Il periodo che seguì il tour mondiale dell’album, fino al 21 settembre del 1999, fu costellato da episodi significativamente negativi: tra quelli che susseguirono sarebbe impossibile non citare l’enorme crisi creativa, la morte della nonna materna-mentore Clara, e l’abbandono del batterista e co-fondatore dei NIN Chris Vrenna.

Reznor era arrivato in fondo alla sua spirale discendente, fatta di depressione, alienazione e abuso di droghe, e The Fragile racchiude 23 pezzi che rappresentano il diario di quei giorni: di come sia riuscito a non uccidersi e a prendere totale consapevolezza della propria natura. Ogni catabasi che si rispetti richiede un eroe che torna dal proprio inferno cosciente, anche solo per raccontare con cognizione di causa ciò che ha incontrato. Reznor lo fa superlativamente, in questo capitolo, traducendo le sue emozioni e il suo linguaggio artistico in un risultato che, soprattutto per le dinamiche affrontate, potremmo definire solipsista. L’album è il romanzo autobiografico dello stesso cantautore: lo troviamo idealmente blindato in una sciagurata cella d’isolamento, intento a fissare ansimante un’altra versione di se stesso (quel Mr. Self Destruct, personaggio con cui aveva trovato la stessa idolatria nociva che aveva cannibalizzato molti artisti dei nineties) fuori dallo spioncino, e ad urlargli addosso. Un’onda sinusoidale, più che una spirale, per quanto in molti si siano affrettati tutti a definirlo il seguito del fortunatissimo album precedente.

Tutto, all’interno delle 23 tracce, riporta all’amara rivelazione che è davvero impossibile riacciuffare e rimettere a posto tutti i pezzi del puzzle, che siamo nati per perdere tasselli preziosi e che la tanto decantata autodistruzione non è la causa delle sciagure, ma un effimero mezzo per farci andare a genio la cosa. I testi ambivalenti di The Fragile parlano della voglia di farla finita per sempre, così come in molti di essi prospera la sprezzante decisione di voler rimanere in carne ed ossa nel proprio inferno privato. Un album infinito, fatto perlopiù da sonorità che reinterpretano la fortuna costruita in passato (quando i NIN resero fruibile e commerciabile un genere che coi Ministry era rimasto materia per pochi), in cui le invettive feroci e dall’alto contenuto ideologico lasciano il posto ad una sperimentazione tendente al parossismo, che accompagna nel modo meno banale il contenuto delle lyrics.

Tanti gli elementi coinvolti, sia al livello di generi che al livello di strumentazione: sonorità ambient ascendenti e discendenti, droni mutilati, sintetizzatori di scuola eighties, loop claustrofobici, echi confusi di voci femminili, chitarre violentate, solenni parti di piano, inaspettate comparsate di mandolini e ukulele. Una fretta nel realizzare qualcosa di inedito che sarà decifrata dalla critica come art-rock di altissimo livello, ma che porterà poco e niente sul piano commerciale, e questo è un dato che Reznor sfoggia ancora come una medaglia scintillante. Un anno dopo i Radiohead sforneranno Kid A, cominciando una rivoluzione che risulta stonata se si dedica abbastanza tempo ad analizzare questo disco in tutte le sue bizzarre derive. Oggi si celebra il ventennale di uno dei più grandi album degli anni ’90, il vero spartiacque nella carriera di un artista immenso, e forse l’apice ineguagliato della sua parabola. Testimonianza inconfutabile di quanto sia stato tumultuoso il percorso che ha portato la metamorfosi di Mr. Self Destruct in un individuo-isola meravigliosamente fragile.

Vincenzo Papeo 

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