PORRIDGE RADIO – CLOUDS IN THE SKY THEY WILL ALWAYS BE THERE FOR ME
(art-rock, songwriting)
Apriamo questo numero di uscite discografiche con una certezza. Una volta tanto, questo non è un giudizio al primo ascolto, ma arriva dopo un mese in cui ho potuto approfondire il disco, compreso uno scambio di domande e risposte via mail con Dana Margolin. La tentazione sarebbe quella di, semplicemente, rimandare all’intervista pubblicata su queste pagine, ma è anche giusto che esprima compiutamente il mio parere, anche se, lo ammetto, su alcune cose prenderò direttamente spunto dalle risposte della leader dei Porridge Radio. Dico subito che questo è un disco meno appariscente ma ugualmente profondo e che suona più naturale rispetto ai precedenti, nei quali l’enfasi faceva decisamente la parte del leone.
Certo, questa componente non è certo sparita, e del resto non potrebbe, visti anche solo il timbro vocale e le cose raccontate nei testi, ma essa si integra in un mirabile equilibrio con un aspetto introspettivo che, per la prima volta, dà la sensazione di saper tenere a bada l’adrenalina, senza sminuirla ma usandola per dare la giusta intensità all’espressione artistica. Dana mi ha scritto che ha capito di non aver bisogno di urlare per essere ascoltata, e trovo che questo sia un passaggio chiave per comprendere sia lo spirito del disco che la consapevolezza e la maturità del percorso della band.
Di conseguenza, se era difficile “mettersi comodi” per ascoltare un album del quartetto di Brighton, viste le continue tensioni e sensazioni scomode espresse con forza, qui è invece possibile assumere realmente una posizione più rilassata, ma solo quella, perché emotivamente, di rilassatezza, non ce n’è l’ombra nemmeno qui e, in realtà, se si apre la mente e il cuore, ci si sentirà ancora più coinvolti da queste canzoni, perché vanno dritte al punto con ancor più efficacia.
KELLY LEE OWENS – DREAMSTATE
(elettronica)
Reduce da un disco al limite dello sperimentale e un tour di spalla ai mostri sacri Depeche mode (i cui sentori scorrono a tratti in “dreamstate”), la performer d’origine gallese torna sulle scene con un un disco destinato a dividere critica e fan. Lasciate da parte le disgressioni ambient di ” Lp8″, Kelly Lee decide di riallacciare il discorso lasciato in sospeso dopo “Inner Song”, ma con un approccio del tutto diverso.
Al contrario del sopracitato, che tendeva più di una mano al dream pop e appariva molto più riflessivo, “dreamstate” è un disco a presa rapida, o quasi, fatto in primis per divertire e divertirsi, dove trovano spazio per lo più pezzi techno dai pochi compromessi e dalla forte impronta pop, in cui i vocalizzi della nostra sono più o meno riverberati. “wanting pure euphoria” canta Kelly Lee Owens in ‘Love you got”, primo estratto del nuovo disco, ed è questa la sensazione più forte legata al nuovo disco della nostra: dopo anni di tour impegnativi e dischi più o meno sfaccettati, si sentiva il bisogno di tornare a qualcosa di primordiale.
Qualcosa di più “semplice” che possa coinvolgere l’ascoltatore, trascinandolo sulla pista da ballo in preda all’euforia e senza farsi troppe domande ( il che lo rende un perfetto disco da post-covid, sebbene esce con 2 anni di ritardo rispetto alla fine della pandemia). Arrivati alla fine del disco appare difficile stabilire con certezza quali siano le canzoni migliori del disco (a detta del sottoscritto è “dark Angel” la più bella), dato che il risultato finale è estremamente concreto ed omogeneo. Ed è questo il bello del nuovo disco di Kelly Lee Owens: semplicità e concretezza al servizio di un dancefloor sognante.
JAPANDROIDS – FATE AND ALCOHOL
(indie rock)
Uscite discografiche con un saluto: a pochi mesi dall’annuncio dell’imminente scioglimento della band, esce oggi, a distanza di ben 7 anni dal precedente, l’ultimo disco dei Japandroids. La ricetta seguita da Brian King e David Prowse rimane a grandi linee la stessa dei dischi precedenti: tra noise e indie rock si fanno largo cavalcate rock (su tutte la splendida e nostalgica “chicago”), più o meno nervose, e dai tratti epici. Niente di nuovo dunque. Ma con i japandroids va cosi. Loro sono fatti cosi (o per meglio dire Erano, data la scelta di non fare un tour per promuovere il disco). ed è insita in questo la loro grandezza Rimarranno per sempre nell’olimpo dei migliori rocker del 21 secolo e del resto poco ci importa.
Il saluto dei Japandroids
L’unica sostanziale novità del disco è l’influenza su esso stesso del raggiungimento di una certa consapevolezza del duo, che a 40 anni sonati e dopo 15 anni di scorribande e tour estenuanti, hanno messo su famiglia abbandonando sempre più quelle tendenze da giovani “rock and roll star, e tutto questo si intravede per lo più nei testi e nel titolo di quest’ultimo disco, tra i migliori mai scritti da Brian King. Nel mentre scorrono via le tracce ci pervade il dispiacere di non poterli vedere per un’ultima volta, ma cosi è la vita, e se ne sentiremo la mancanza ci saranno sempre dischi come questo o “post nothing” a ricordarci di quanto sono stati belli e divertenti i ragazzi di Vancouver.
CHRISTOPHER OWENS – I WANNA RUN BAREFOOT THROUGH YOUR HAIR
(art-rock, songwriting)
Come per il nuovo disco dei Porridge Radio, anche per il ritorno di Christopher Owens è utile leggere un’intervista per avere una giusta idea sul disco. Solo che, in questo caso, non l’ho fatta io ma qualcuno di più autorevole, ovvero il Guardian. Riassumendo, fino al 2017 andava tutto bene per l’ex frontman dei Girls, poi gliene è successa una dietro l’altra: un SUV lo ha travolto mentre andava in moto e non ha potuto curarsi per via della mancanza di assicurazione sanitaria; la fidanzata che stava per sposarlo l’ha lasciato; ha perso il proprio lavoro diurno, quindi non ha più potuto pagare l’affitto e ha vissuto in una roulotte attaccata alla propria auto; la roulotte è stata rubata; quando ha provato a fare nuovamente musica con Chet White, l’altra metà dei Girls, costui è morto.
Dalle ceneri
Basterebbe per buttare giù non solo un elefante, ma un esercito di elefanti, e invece Christopher è ancora qui, e ci consegna un album ovviamente influenzato da tutti questi problemi ma anche impreziosito da tuta la sua sapienza musicale. Si tratta, infatti, di un disco non solo sincero e molto intenso emotivamente, ma anche ricco di sfumature, di dettagli, senza effetti speciali ma con tanti momenti nei quali è facile sorprendersi per via delle soluzioni sonore e di arrangiamento escogitate dall’artista.
Perché poi è facile dire che si apprezza un disco perché chi l’ha fatto si è messo a nudo, ma la verità è che la qualità strettamente musicale non può mancare, e qui di certo non manca. Cristopher lavora di cesello e disegna un’ampia quantità di arabeschi sempre diversi e tutti ugualmente riusciti, e se ci si sente coinvolti nella sua vicenda umana, è anche grazie a questo alto livello artistico. Tra riverberi, rotondità chitarristiche, stop and go, dinamici intrecci tra strumenti e voce, l’ascoltatore non può mai smettere di sentirsi tirato in mezzo e si arriva alla fine con la netta sensazione che questo sia uno di quegli ascolti che lasciano davvero il segno.
KARATE – MAKE IT FIT
(indie-rock, jazz rock)
Non poteva mancare il ritorno dei KARATE in questa settimana di uscite discografiche. Sei album che hanno segnato la svolta musicale del secolo scorso, un’estetica che combinava elementi di emo, slowcore e jazz, possiamo racchiudere in questo la carriera di questa band epocale. Questa versatilità ha reso ciascuno dei loro album emozionante e imprevedibile e ha anche tracciato il progresso dell’approccio strumentale del cantante e chitarrista Geoff Farina, uno dei migliori interpreti musicali degli ultimi trent’anni, a nostro avviso.
Ogni volta che una band amata ritorna dopo una lunga assenza, è giusto dire che le aspettative dei fan sono particolarmente difficili da soddisfare. La prima speranza è che la band suoni ancora più o meno esattamente come nel loro periodo di apice. L’altra, più ragionevole, speranza è che i giocatori riuniscano tutte le abilità e le esperienze che hanno accumulato nel frattempo e creeranno un nuovo suono che tocchi il vecchio ma abbia una vitalità del momento. Sfortunatamente, Make It Fit non riesce a spuntare una di queste caselle. Il disco non ci ha entusiasmato ed è privo di momenti di luce. La chimica tra di loro è tangibile, la si percepisce, ma il disco sembra rassomigliare al progetto parallelo di Farina chiamato Exit Verse, in cui la matrice sonora figlia dei ’70 surclassa il genio slowcore. Poco “KARATE” questo ritorno, peccato.
JERRY CANTRELL – I WANT BLOOD
(alternative rock)
Uscite discografiche con un ritorno di uno dei pochi reduci della meravigliosa parabola del grunge: JERRY CANTRELL, storico chitarrista degli ALICE IN CHAINS, ma anche autore di ottimi album solisti (vi consigliamo il meraviglioso Degradation Trip del 2002), è tornato in pista con un nuovo album solista. L’album presenta esibizioni di artisti del calibro di Duff McKagan (Guns N’ Roses), Robert Trujillo (Metallica) e Greg Puciato (The Dillinger Escape Plan), e si sente. I Want Blood è un album piacevole e il momento più delicato lo si evince con “Echoes Of Laughter”, una ballata eccezionalmente malinconica che si crogiola nell’oscurità degli anni ’90. Cantrell si dimostra ormai uno dei migliori reduci dell’hard rock (dal passato grunge) con un approccio sofisticato verso le ballate oscure.
MC5 – HEAVY LIFTING
(proto punk)
In questo numero di uscite discografiche c’è un caso da Guiness: un disco dopo 53 anni è qualcosa che a memoria non ho mai sentito in tutta la mia esperienza da ascoltatore musicale, eppure, gli MC5 (quel che ne resta) a giugno di quest’anno hanno annunciato il ritorno e il contestuale congedo dalle scene. Tralasciamo la storia, l’importanza e la carriera di questa band enorme, soffermiamoci su questo ultimo disco intitolato Heavy Lifting.
Il disco è pieno di ospiti (da Tom Morello a Duvall degli Alice in Chains) ma più che un vero album ha lo stesso sapore dell’album nostalgico degli Stooges del 2007 The Weirdness, Heavy Lifting. L’unico scopo è: suscitare la curiosità di molti vecchi punk. A dire il vero però, è poco più di una nota a piè di pagina nella storia di una band che è stata un vero punto di svolta per il genere. Ricordiamoli per quello e lasciate perdere questo disco.
FANTASTIC NEGRITO – SON OF A BROKEN MAN
(blues rock)
Xavier Amin Dphrepaulezz, in arte Fantastic Negrito, ha avuto una spinta in avanti nel mainstream tre anni fa come parte della colonna sonora di Arcane; e ascoltando il suo ultimo album, Son of a Broken Man, si capisce cosa lo abbia portato all’interno di una storia così arrabbiata e ribelle. È infatti forse il suo album più tagliente, con vistose influenze rock, e con una storia personale che fa male per chi la conosce. Ma chi lo ha amato da prima, nei suoi acclamati album precedenti, non deve avere paura di perdere per strada la sua identità. Son of a Broken Man è dark, destabilizzante, scomodo e acre – e proprio per quello splendido, perché non poteva essere altro.
Esplora in maniera schietta e onesta la storia personale del cantante, e in particolare l’elemento imponente e disamorato di suo padre, figura distante e indifferente, che lo ha cresciuto tra numerose bugie. Ma se il suo accento somalo e il suo cognome sono il frutto di un grande inganno, il suo talento e la sua voce espressiva gridano al mondo la sua verità. Un rock che si fa vittoria, e che fa male facendo bene.
ALTRI ALBUM USCITI OGGI:
PHANTOGRAM – COME ALIVE
(indietronica)
BON IVER – SABLE (EP)
(indie folk, songwriting)