THE CURE – SONGS OF A LOST WORLD
(gothic rock)
Questo primo numero di uscite discografiche di novembre parte con il botto e, con l’album più atteso dell’anno: il nuovo disco dei CURE. Songs of a Lost World è il ritorno alla desolata bellezza del loro periodo di massimo splendore degli anni ’80. Nel loro nuovo album, che sfida sonoramente la mortalità, i Cure, che si sentono come se fossero stati nelle nostre vite per sempre, come uno sfondo monolitico, fanno i conti con il trascorrere del tempo, con un album potente e magistralmente prodotto, che segna la nostra impermanenza alla vita.
Poche band possono affrontare bene ombre così profonde e così tanti vuoti e farli funzionare senza cliché, ma poche band sono i Cure. Songs Of A Lost World è stato scritto e registrato con lo spettro della morte che rimbalza nella sua ombra dopo la perdita della madre, del padre e del fratello di dieci anni più grande di Robert Smith: ed è questo il veicolo perfetto per riflettere musicalmente e liricamente queste emozioni in fuga. Nel corso dei decenni, la band ha suonato sia la vita che la morte perfettamente.
Come David Bowie ha oscillato dal suo effervescente sperimentalismo fantascientifico degli anni Settanta al suo epitaffio intitolato Blackstar, allo stesso modo, i Cure, possono dipingere l’oscuro utilizzando una vasta gamma di colori cromatici. Ed è in questo spazio emotivo e creativo che, dopo 16 anni, pubblicano un nuovo album, colmo di oscura energia.
Dal Blackstar di Bowie al Darkstar dei Cure
Le otto tracce trascinano, in uno spazio profondamente personale e nell’occhio di un uragano emotivo, anche i cuori più forti. Ci sono tutti i classici tratti distintivi dei Cure: dalla masterclass di basso dolorosa al clatter minimalista e potente della batteria (i cui suoni sono meravigliosi per tutta la durata del disco) alle chitarre a spirale di Smith e alle linee guida del fraterno amico di Bowie Reeves Gabrels che si adattano magnificamente bene alla pastiche dei Cure.
Aprendo con Alone e le sue immagini apocalittiche, il passare del tempo e la natura temporanea dell’esistenza e della permanenza è tutta narrata in questo album. Alone è il primo “singolo” dell’album, e la fetta di sette minuti di malinconia martellante galleggia ben al di sopra dello spazio pop. È il singolo migliore prodotto per questa industria musicale del 2024: la musica esiste al di là dei vincoli dei media, fluttuerà nel proprio etere nel 21° e nel 22° secolo ed esisterà nei suoi termini emotivi per sempre.
Epurare l’anima
L’album si chiude con “Endsong”, un finale perfetto che rivisita il tema di “Alone” con il ritornello: “La fine di ogni canzone”. La lunga introduzione della traccia si sviluppa su un crescendo ampio e polifonico mentre Smith riflette sui sogni giovanili e sui percorsi lasciati alle spalle. “Sono fuori al buio chiedendomi come sono diventato così vecchio… è tutto andato… senza tutto ciò che amavo”, canta, catturando l’amara bellezza della vita fugace. “Endsong” evoca un senso di finalità che ricorda l’addio di David Bowie in Blackstar (facendo eco all’inevitabile dolore di ogni magistrale finale) e il finale di Viale del Tramonto di Wilder tra decadente difficoltà.
Ho permesso (con piacere) alle paure più profonde di Robert Smith di insinuarsi nella mia psiche. In un anno di album brillanti (qui una parte) Songs of a Lost World è stato sia deprimente che inquietante, ma anche magnifico e magistrale. Nel nutrire il suo cuore, Robert Smith ha epurato la sua anima e consegnato l’ennesimo capolavoro.
Giovanni Aragona
MOUNT EERIE – NIGHT PALACE
(Singer-Songwriter, avant Folk)
C’è ovviamente spazio per Mount Eerie in questa settimana di uscite discografiche. Uscito a distanza di ben 6 anni dal precendente, “Night Palace” è il culmine, sotto molti aspetti, della musica di Phil Elverum. Anche senza sperimentare più del dovuto, torna alle sue radici con questo album. E seppur legato indissolubilmente al capolavoro “the Glow Pt. 2” (uscito a nome Microphones nel 2003), al contempo si poggia anche su tanto altro materiale uscito precedentememte. C’e molta drone music e bassi distorti come in Microphones nel 2020, e persino elementi di black metal qui. Il suono rumoroso ricorda The Glow Pt. 2, pur avendo ancora elementi che lo legano a tutta l’altra musica che Phil ha prodotto negli anni.
Davide Belotti
JENNIFER CASTLE – CAMELOT
(Songwriting, indie)
La mitologica e immaginifica Camelot è l’ispirazione del nuovo disco di Jennifer Castle in questo primo numero di uscite discografiche di novembre. Nella corte di Artù, governata dalla magia, si affrontavano le più grandi paure affrontando sfide che permettevano all’eroe di crescere. Per Castle questo nuovo LP è a tutti gli effetti la sua Camelot, il suo luogo impalpabile in cui sviscerare questo preciso momento della sua esistenza, condividendolo con l’ascoltatore.
L’album è composto da un perfetto equilibrio fra brani essenziali e sospesi che si reggono perfettamente su una chitarra acustica, Earthsong, Some Friends, e brani suonati dalla band, Lucky #8, pezzo in cui compare Cass McCombs alla slide guitar. È presente una eco country, Full Moon in Leo, che infonde ancora più spessore alla struttura del disco. La Camelot di Jennifer Castle è piena di contraddizioni e opposizioni, malinconia e luce che descrivono il suo posto nel mondo in questo preciso momento. È un album che scorre perfettamente e si ascolta con grande piacere.
Chiara Luzi
GIORGIENESS – GIORGIENESS E I CUORI INFRANTI
(pop)
Uscite discografiche con tanta italia in questo primo numero di novembre. Le grandi stazioni radiofoniche italiane hanno il potere di essere ascoltate abbastanza spesso anche da noi appassionati di musica cosiddetta alternativa; infatti, penso che capiti con frequenza di doversi muovere in auto per brevi tragitti e non avere tempo o voglia di collegare i nostri device per godere di un po’ di buona musica. È altrettanto normale che chi di noi si trova a imbattersi nelle proposte di questi network le ritenga perlopiù trascurabili, per via dell’eccessiva standardizzazione e della scarsissima profondità emotiva che le caratterizza.
Magari, però, potrebbe venirci in mente che forse siamo noi ad avere dei pregiudizi, che potremmo ascoltare con mente più aperta, senza condizionamenti, ecc… Sapete cosa vi dico? Se doveste avere questi pensieri, correte subito ad ascoltare il quarto album di Giorgieness, perché è illuminante per capire che no, i nostri non sono pregiudizi. Infatti, è possibile giocare in quel campo e averne, invece, di profondità, di contenuti, di cose da dire, musicalmente, vocalmente e a livello di testi.
Il puro successo? è possibile
Ad esempio, alla banalità di far finta che sia il proprio compleanno ogni giorno per combattere la depressione, può contrapporsi l’onestà di raccontare un compleanno difficile, nel quale chi ci doveva essere non c’è stato; oppure, alla vuota altezzosità di paragonarsi a un espresso che non fa dormire qualcun altro, può far da contraltare l’ammissione di sentirsi troppo spesso fuori posto e di provare un po’ più di sicurezza (ma nemmeno troppa) solo muovendosi a passi lenti. E questo lo si può fare, come dicevo, con gli stessi strumenti che garantiscono il maggior successo possibile oggigiorno, quindi un sound immediatissimo e molto adatto a catturare l’attenzione anche dell’ascoltatore distratto, melodie parimenti rotonde e catchy, testi diretti che non lasciano spazio a interpretazioni.
Però, c’è modo e modo di farlo: facevo l’esempio degli argomenti trattati, ma anche negli altri aspetti si può mettere un po’ più di profondità e contenuto senza rinunciare alla chiarezza d’intenti, e Giorgieness fa proprio questo; del resto, l’ha sempre fatto, anche quando la sua proposta era basata sul rock aggressivo. Pertanto, non si cada nell’errore di credere che l’artista valtellinese si sia svenduta in questo passaggio al più facile ascolto, perché, in realtà, la qualità e l’impatto emotivo di queste nuove canzoni sono lì da ascoltare. Ovviamente mi auguro che esse passino anche dalle radio, accanto alla starlettina statunitense di turno, ma, se anche non dovesse succedere, almeno qualcuno sta mostrando che esiste veramente un modo giusto di fare musica potenzialmente capace di attirare le masse. Un gran bel lavoro in questa settimana di uscite discografiche.
Stefano Bartolotta
GIUNGLA – DISTRACTIONS
(alt-rock)
Sembra strano che solo ora il progetto solista di Emanuela Drei arrivi al primo lavoro sulla lunga distanza, visto che il primo EP risale al 2016, eppure in tutti questi anni la musicista romagnola non ha mai, evidentemente, ritenuto necessario mettere assieme un ampio numero di canzoni, preferendo, invece, puntare su raccolte di 4-5 brani e anche su uscite singole. Comunque ora il grande passo è stato finalmente fatto e ci troviamo di fronte a 12 tracce che, a dire di Giungla stessa, sono nate semplicemente da un lavoro in sincrono con il batterista Pietro Vicentini quasi come conseguenza delle prove per il tour negli USA avvenuto l’anno scorso.
Una coerente evoluzione
Ci si potrebbe aspettare un cambiamento radicale dal fatto che, per la prima volta, sia presente un batterista, ma in realtà l’ascolto rivela un’evoluzione coerente con quanto fatto in precedenza, ovvero un passaggio da una proposta molto diretta e grezza (nel senso buono del termine) a una molto attenta ai dettagli, ai ricami e al lavoro di cesello. In queste canzoni c’è una vocalità piuttosto morbida, ci sono molti arpeggi chitarristici e la sezione ritmica non è composta solo dalla batteria, ma anche da svariati suoni che, sempre leggendo ciò che ha da dire l’artista, non sarebbero presenti su un classico disco di alternative rock. La cosa più importante è che i pregi che, da sempre, hanno caratterizzato questo progetto, sono ancora più presenti che mai in questo album, che suona moderno, vario, ispirato, e capace di catturare completamente l’attenzione dell’ascoltatore
Stefano Bartolotta
QLOWSKI – THE WOUND
(post-punk)
Post Punk italiano in questa settimana di uscite discografiche! Quando annunci il nuovo disco dicendo che il produttore è Daniel Fox della Gilla Band, stai già avvisando tutti che certamente non hai lesinato sui volumi e sulla saturazione sonora. E infatti, all’ascolto salta subito all’orecchio quanto detto sopra, ma, soprattutto, che i suoni non sono stati semplicemente ammassati per fare più casino, e che, invece, ci sono dietro delle dinamiche interessanti e che rendono validissimo e degno di attenzione questo lavoro. C’è assolutamente tutto ciò che ci deve essere per far sì che il disco emerga fieramente anche se il filone di cui fa parte è il più affollato degli ultimi anni.
Varietà in un genere abusato
Infatti, possono anche esserci centinaia di dischi post-punk in giro per il mondo, ma quando la scrittura delle canzoni, la loro interpretazione vocale, la varietà e l’imprevedibilità degli arrangiamenti sono di questo livello, c’è solo da togliersi il cappello e ringraziare di poter ascoltare una proposta di così alta qualità. Alla fine, più che la pienezza sonora e i decibel, a caratterizzare questo disco e a elevarlo sono le sfumature, le stratificazioni, le linee strumentali che si distinguono bene tra loro e si incrociano in maniera sempre diversa e ogni volta funzionale per dare le giuste spinte di intensità o sfruttare le suggestioni dei vuoti e l’interazione di questo impianto così elaborato con una vocalità tanto decisa quanto espressiva. Un lavoro ottimo per una band londinese di residenza che abbiamo seguito con attenzione qui da noi per via della nazionalità italiana dei due leader, e che ora si merita più che mai di finire sotto i riflettori a livello internazionale.
Stefano Bartolotta
ALTRI ALBUM USCITI OGGI:
BEATRICE DILLON – SEVEN REORGANISATION
(IDM)
THE BLACK DOG – SLEEP DEPRIVATION
(ambient)
FIONN REGAN- O AVALANCHE
(indie pop)
THUS LOVE – ALL PLEASURE
(indie-rock)
PETER PERRETT – THE CLEANSING
(indie rock, punk rock)
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