Trentadue anni da ‘You’re Living All Over Me’ dei Dinosaur Jr: la svolta dell’indie rock


La prima volta che Lou Barlow vide J Mascis, quando scese dalla macchina per presentarsi all’audizione
 come batterista dei futuri Deep Wound proprio a casa sua, pensò “Dio mio, ma quanto è figo ‘sto tipo?”. In realtà il tipo in questione, Joseph Roland Mascis, di figo aveva ben poco, se non il fatto che provenisse da una famiglia agiata. Anzi, come lo stesso Barlow ricorda come punto a favore, “faceva letteralmente schifo” e piuttosto era un vero e proprio slacker disadattato, con grossi problemi di comunicazione e una mania esagerata per la musica e per tutto l’hardcore che girava nelle college radio. Ma essere disadattati e tutto il resto evidentemente era una delle prerogative principali per dar vita a una band come i Dinosaur Jr, fin dall’inizio segnata dal rapporto chiave di odio-amore mai risolto fra i suoi due principali artefici. Da un lato un timido, impacciato, insicuro Lou Barlow, incapace persino di presentare le sue canzoni alla band tanto da crearsi un mondo a parte tutto suo chiamato “Sebadoh”; dall’altro l’imperscrutabile, laconico, taciturno ma sfrontato e apparentemente incurante del mondo circostante J Mascis.

Una relazione quasi morbosa, fondata su equilibri precari destinati a saltare da un momento all’altro. Così, quando “You’re Living All Over Me” venne dato alle stampe, nonostante la vita della band avesse già fatto passi da gigante sia a livello musicale che di condivisione personale, i conflitti interni e l’incapacità assoluta di comunicare erano ancora tutti ben presenti e vennero condensati in questo vero e proprio capolavoro del rock indipendente d’oltreoceano. “Mi stai addosso”: un titolo che già da solo dice molto del mondo interiore che strisciava sotto la pelle dei Dinosaur Jr (e di J Mascis in particolare). Secondo disco, ma primo pubblicato per l’ambitissima SST records di Greg Ginn, complice la fresca amicizia con i Sonic Youth, che compaiono fin da subito sotto forma di Lee Ranaldo nei back vocals dell’apertura fulminante Little Fury Things, un incipit che lascia ben pochi dubbi su quello che verrà dopo: chitarre, chitarre e ancora chitarre, a volumi indecenti, una furia a tutto tondo simboleggiata dalle voci in apertura, sguaiate e urlate, alle quali fa da contraltare la placidezza melodica della voce di J Mascis.

Dentro al disco vengono mescolate tutte le principali passioni della band, nutrite dalla scena hardcore punk dei primi Ottanta in una formula del tutto originale che li renderà in poco tempo un autentico punto di riferimento per la musica indipendente USA. Da un lato, la velocità assassina tipica di quella scena, condita di un pizzico di hard rock stile Motorhead, assoli lancinanti sparsi in maniera quasi deliberatamente confusionaria e, dall’altro, un amore per le melodie squisitamente pop, spingendosi oltre ’attitudine dei loro amati maestri Husker Du. “Amavamo lo speed metal” dice Barlow “e contemporaneamente amavamo quelle cose jingle jangle un po’ da mollaccioni”. In questa frase è racchiusa la vera anima dei Dinosaur Jr e tutto quello che li renderà unici nel loro genere, nonché veri e propri capiscuola di quello che da lì a poco sarebbe accaduto attorno a Seattle. In un pezzo come Sludgefeast è presente tutto ciò che sarà poi il grunge, dal riff incalzante alla cupezza di un rock seventies sempre più intimista, in cui l’attitudine punk perde qualsiasi connotato politico per farsi terreno su cui esprimere alienazione e incomunicabilità. Se per la prima metà il disco procede su questi ritmi forsennati, da Tarpit in poi compare una vena più pacata (si fa per dire) e incline alla forma canzone, in cui trovano spazio anche le prime creature di Lou Barlow, fra cui spicca l’alienata ma visionaria Poledo: un collage sonoro realizzato in assoluta solitudine grazie a registratori portatili. Una tecnica che avrebbe anch’essa finito per fare da modello ad innumerevoli approcci lo-fi nei Novanta.

A chiudere l’edizione cd come bonus track è una cover surreale di Just Like Heaven dei Cure, e non casualmente. Come a dire, c’è questo pezzo new wave-romantic pieno di melodia, avreste mai pensato che i Dinosaur Jr avrebbero voluto interpretarlo? E invece, non solo lo amano ma lo stravolgono con il loro marchio di fabbrica: pop, intimismo, ma tanto furore. E lo fanno esattamente come nessuno avrebbe mai potuto immaginare, usando un cantato grind-core e tagliandolo di netto sul finale. Robert Smith apprezzerà, ma più di ogni altra cosa è chiaro che per fare una cosa del genere devi essere già una grande band. Ciliegina sulla torta di un disco che rappresenta un’esplosione di una supernova impazzita da cui partono migliaia di frammenti preziosissimi per quello che sarebbe stato il futuro prossimo dell’alt-rock.

Patrizia Cantelmo 

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