03/12/2024
Si è conclusa splendidamente la quinta edizione di TODAYS FESTIVAL

Foto 23 agosto: Alessia Borghesi, Stefano D’Elia 
24,25 agosto: Sara Uccella, Stefano Bartolotta

 

23- 24 agosto 

(Ride)

(Bob Mould)

(Spiritualized)

Anche per la seconda giornata il TO-Days Festival è riuscito a regalare al pubblico emozioni ed entusiasmo, coinvolgendo giovani, giovanissimi ma anche ex-giovani. Dopo i consueti appuntamenti del pomeriggio, che si sono svolti tra il Mercato Centrale (con Cristiano Godano, cantante e fondatore dei Marlene Kunz) e gli Arcas Studios, la scena si è spostata allo Spazio 211 dove un caldo Adam Naas ha accolto agli ultimi raggi di sole i primi (e numerosi) avventori della serata. Adam è parigino, giovanissimo, e con il suo “dark romantic soul”, (come lo definisce sulla sua pagina Facebook) si lascia conoscere, emozionando tutti per suoi i testi, le melodie e la capacità di entrare in profondità della vita propria e degli altri. Il giovane crooner francese si destreggia molto bene sul palco offrendo una bella presenza scenica, una voce mozzafiato ed una proposta artistica molto interessante, che probabilmente avrebbe meritato ben più di un “apri serata”. 

Adam Naas:

Non altrettanto viene da dire per One True Pairing, il progetto solista di Tom Fleming, che stride un po’ sia per la proposta artistica che per il tipo di performance (la voce baritonale di Tom, che nella versione studio fa un po’ il verso a Elvis Presely, live non si avvicina nemmeno a fare il pari con quella di Tom Smith degli Editors). L’ex bassista nel suo nuovo progetto si propone troppo sicuro si sé e coinvolge poco il pubblico, proponendo melodie già sentite che niente hanno a vedere con i tempi di A Simple Beatiful Truth. I Low, probabilmente il gruppo più atteso del Festival, non si sono lasciati aspettare e sono saliti sul palco puntuali al crepuscolo, ammantando il parco con la loro magia musicale, che vince per quel giusto mix di minimalismo, noise e preghera laica. Con umiltà a amore per il proprio mestiere si propongono alla platea, offrendo vera e propria arte; “If you don’t have any friends we’ll be your friends” (trad.: “se non hai amici noi saremo i tuoi amici”) dicono a metà concerto. Il risultato è impressionante e, nella loro unica data italiana, propongono uno show di luci e suoni senza eguali.

 

Con tanta curiosità e grande trepidazione del gruppo delle più giovani arriva a chiudere la serata a Spazio 211, Hozier. La formazione è imponete: due coriste, un bassista, un batterista e tre polistrumentiste che si alternano a coronare la performance toccante dell’artista irlandese. Non capita di rado che, dai meno appassionati, quando racconto di aver visto da vivo Andrew Hozier-Byrne, mi venga chiesto “ma è nero?” perché la sua voce intensa, capace di ricoprirti di brividi, ha un soul tutto afro anche nel modo in cui si avvicina al pubblico. Presenta il nuovo album Wasteland, baby! che i suoi seguaci conoscono già a memoria e che contiene pezzi come Movement (il cui videoclip, girato in un hangar abbandonato, vede protagonista il ballerino Sergei Polunin). Prima di chiudere con la hit Take me to church chiama la madre per farla salire sul palco (compie 60anni) ma per motivi non chiari la donna non sale lasciando un filo di suspence sul fine serata. 

Hozier – ‘Dinner & Diatribes’:

 

Con uno stacco di pochi minuti il pubblico è invitato a spostarsi all’Ex Fabbrica Incet dove i The Cinematic Orchestra provvedono ad ulteriormente alzare il livello già alto della serata con una proposta ricca e ancora più nu jazz del solito, con delle sonorità che appaiono meno nostalgiche e più incoraggianti sul futuro. 

La seconda giornata si chiude poi con il dj set di Art Of Noise (JJ Jeczalik & Gary Langan) con una proposta molto interessante e sofisticata che rivisita in chiave modera e acid jazz l’elettronica degli esordi. Il risultato della loro lunga esperienza porta un accattivante scenario che entusiasma anche gli avventori meno âgée, portando un post-concerto di qualità ma sicuramente di atmosfere ben diverse da quelle create dagli Acid Arab e Red Axes l’anno scorso.

 

(S.U)

25 agosto

 

L’area del festival è la stessa che ha sempre caratterizzato la versione estiva di Spazio 211, e che ha regalato tantissimi concerti indimenticabili a tutti gli appassionati (dico solo Wilco, Notwist e Raconteurs, ma ce ne sono moltissimi altri), e quando una gestione dello spazio disponibile funziona così bene da così tanto tempo, è inutile cambiarla. Ci godiamo, quindi, ancora una volta, la perfetta divisione tra area palco, zona cibo/acqua/bevande varie e angolo dei bagni chimici, tutto distribuito ottimamente per far stare chiunque a proprio agio in qualsiasi momento, e soprattutto il fatto che, come sempre, la visione e l’acustica siano ottimali in qualunque punto ci si trovi. Il bello, poi di avere solo quattro band con oltre cinque ore e mezza a disposizione, è che nessun gruppo viene trattato come una presenza irrilevante, ma tutti hanno molto tempo per suonare e farsi notare. Purtroppo, almeno a parere del sottoscritto, ciò non giova alla resa del live dei Parcels, giovane quintetto australiano, che ha debuttato su album l’anno scorso e che propone un electropop molto influenzato dalla disco music.

 

Il sound dei cinque è divertente e accattivante, ma sotto la veste sonora e le azzeccate armonie vocali, non si scorgono melodie e canzoni in generale degne di nota. È tutto uno sfoderare riff, groove, voci che si sovrappongono e, dal punto di vista visivo, muoversi sul palco e sorridere, ma davvero non si riesce a notare nient’altro nell’ora di set, così i sorrisi di chi sta in platea, o quantomeno i miei, sono sempre più a denti stretti man mano che il live procede, e la fine viene accolta con un certo sollievo. 

Anche la band successiva punta a far ancheggiare il pubblico grazie a ritmi e melodie ispirati al passato, in questo caso al soul, ma la proposta dei belgi Balthazar ha tutt’altra sostanza, e il loro set riceve un riscontro trionfale. I cinque hanno classe da vendere, canzoni che starebbero in piedi da sole anche senza la raffinata veste sonora, una fluidità di esecuzione impeccabile e una varietà che rende sempre intrigante ciò che viene suonato. Come dicevo, il soul è il punto di partenza, ma i Balthazar lo modernizzano, passandolo attraverso un personale filtro indie-pop- rock, con gusto ed efficacia e creando un suono fresco e sinuoso che avvolge gli spettatori in un abbraccio vellutato e fa loro muovere il proprio corpo a tempo senza che quasi se ne accorgano. Le melodie suadenti e la spiccata espressività vocale di tutti i membri della band, con un suono del genere e con un’esecuzione di così alto livello, non fanno prigionieri e conquistano tutti i presenti. L’abilità da polistrumentisti di quasi tutti e la capacità di variare molto anche dal punto di vista vocale, con almeno un paio di voci soliste notevoli e la partecipazione di tutti nei momenti opportuni, sono i perfetti veicoli per creare la perfetta resa live di canzoni validissime e che non possono non piacere, soprattutto se suonate così. 

Appena scende il sole, Johnny Marr si materializza sul palco e regala ai presenti un set di grande qualità, spaziando tra diverse fasi della sua carriera, tra SmithsElectronic e carriera solista recente. Il livello della performance è elevato, non bisognerebbe nemmeno specificarlo, da un tocco sulla chitarra semplicemente celestiale, che rende ogni brano un concentrato di emozioni davvero importanti. Avevo assistito a un live di Marr diversi anni fa, prima dei National a Milano, e avevo notato la differenza tra le canzoni degli Smiths e tutte le altre, ma ora, il Nostro è ispirato più che mai, e lo si nota già ascoltando l’ottimo disco del 2018. Questa ispirazione si traduce in un concerto di livello più omogeneo, e allineato verso l’alto, perchè davvero in termini di resa, non si nota alcuna differenza tra le varie Bigmouth Strikes Again, This Charming Man o There Is A Light That Never Goes Out e le più recenti Day In Day Out, Hi Hello o Easy Money. E questo succede non perché le canzoni degli Smiths abbiano perso, ma perché tutte le altre, comprese, appunto, un paio dal repertorio degli Electronic e un’inaspettata e riuscitissima I Feel You dei Depeche Mode, si sono portate su quell’altissimo livello. E allora, viene naturale lanciare un’idea che può apparire una provocazione, ma che è invece un omaggio al set nel suo complesso: perché non eliminare le canzoni degli Smiths dalla scaletta, visto che, durante le stesse, Johnny si trova a cantare testi scritti non da lui, ma da una persona con la quale è in rapporti tutt’altro che idilliaci? Sarebbe tutto più vero e più rispondente a ciò che è Johnny Marr oggigiorno, ovvero un songwriter e un performer al massimo dell’ispirazione compositiva ed esecutiva. 

Johnny Marr – Hi Hello:

 

È un po’ l’idea alla base del set conclusivo di Jarvis Cocker, che mette in bella vista sul bordo del palco la scritta EVOLVE e, a parte una b side dei Pulp (quella His ‘n’ Hers più nota per aver dato il titolo allo splendido album che non come canzone in sé), propone canzoni che praticamente nessuno conosce e che fanno parte di Jarv Is, ovvero la nuova vita artistica della leggenda di Sheffield. Alla sua età e con lo status che si ritrova, Jarvis può volersi rimettere in gioco solo in seguito alla voglia di evolvere, che significa scrivere e arrangiare canzoni nel massimo della libertà creativa, ovvero senza dover pensare né alla corrispondenza con la forma canzone tradizionale, e nemmeno a un minimo di coerenza sonora. Jarvis, è evidente da quanto ascoltato qui, fa semplicemente quello che vuole e, più che canzoni, mette insieme flussi di coscienza nei quali è importante anche l’aspetto più meramente concettuale. Non si tratta di un ascolto facile, lo si sarà capito, ma non si può negare l’estremo fascino di una proposta del genere, anche e soprattutto perché opera di un’icona di stile non solo visiva, ma anche strettamente musicale, e che mette tutta la propria stilosità in questo nuovo progetto. Il glamour tipico del personaggio e dell’artista, quindi, è presente in dosi massicce, ma allo stesso tempo, i messaggi lanciati nei diversi episodi sono profondi e per nulla superficiali. La curiosità di ascoltare come verrà il tutto su disco non può non esserci dopo un live del genere, però probabilmente il palco è la dimensione adatta per questo progetto, perché Jarvis può parlare liberamente tra una canzone e l’altra, o anche in mezzo alle canzoni, e può far sentire il pubblico più vicino che mai a sé, addirittura scendendo in transenna e chiedendo a due persone del pubblico quali fossero le loro paure, per poi dare un paio di minuti di saggezza per ognuna di esse. In un’epoca in cui diversi eroi musicali degli anni Novanta cercano di farsi nuovamente notare rimanendo seduti sulle proprie certezze, Jarvis sperimenta e si mette in gioco come non mai, e incarna alla perfezione anche lo spirito del TOdays, che ha sì composto la propria lineup con molti nomi “sicuri”, ma che, allo stesso tempo, ha scelto progetti in evidente fermento artistico e che sembrano avere un futuro davanti a sé, anziché riproporre il passato in modo sterile.

Jarvis Cocker – Further Complications:

(S.B)

Riproponiamo la nostra frase, pensata e scritta nei giorni che hanno preceduto la rassegna :“Sarà un’edizione clamorosa! Todays è la realta festivaliera piu ambiziosa, solida e interessante d’Italia!”. Non avevamo tutti i torti. 

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