Tame Impala – ‘The Slow Rush’

 

 

Etichetta: Modular
Genere: Psych Pop
Release: 14 febbraio 

The Slow Rush potrebbe sembrare il classico disco da after, un sottofondo raffinato con il quale fare bella figura con qualcuno nel momento in cui si ha voglia di lasciarsi trasportare senza necessità di troppa partecipazione emotiva. Invece è tutto il contrario, perché questo disco ruba la scena, la occupa in modo ingombrante, ti chiede il 100% seducendoti con l’illusione che ci sia bisogno solo del 50% di te. Come un pensiero che sembra rinfrancarti solo nel momento del bisogno, salvo poi accorgerti che il momento del bisogno è ormai senza soluzione di continuità. 

Registrato in maniera egregia e con un maniacale bilanciamento dei suoni, questo LP mostra il miglior Kevin Parker post Lonerism, un uomo che osserva se stesso ed i suoi simili all’interno delle mille illusioni che lo rendono vivo, il tempo fra tutte. Ogni pezzo è illuminato da armonie e vocalizzi che sembrano essere venuti fuori senza il minimo sforzo ed anche se ad un ascolto meno attento può dare l’idea di un’unica jam, i singoli momenti brillano indipendenti gli uni dagli altri (Borderline, Posthumous Forgiveness, On track, Tomorrow’s Dust su tutti). 

L’idea che non avrebbe guastato al disco, sarebbe stata quella di inserire un paio di pezzi totalmente distaccati dal contesto sintetico e sognante che permea tutto il lavoro, soprattutto nell’uso della voce. Ma tale carenza è sorretta da alcune virtuose code strumentali che distolgono l’attenzione dal consolidato canovaccio con un lodevole gusto seventies, che negli attuali tempi bui è sempre positivo. Molti hanno parlato di Bee Gees, ma vogliamo mettere le tastiere e l’impostazione vocale alla Supertramp di “It might be time”? Quando Kevin vuole suonare vintage (le false partenze che sembrano errori di registrazione) e si affida a impostazioni più classiche, il disco viaggia a briglie sciolte e sembra portare a nudo un’ anima più leggera di cui probabilmente vorrebbe negare l’esistenza anche a se stesso (Glimmer).

La seconda parte del disco è la più sperimentale e si ha la sensazione che sia suonata come una sorta di liberazione da alcuni dogmi auto imposti che hanno circoscritto il raggio d’azione nella prima parte (che in livello assoluto è più riuscita). Esempio lampante è la floydiana One More Hour, che sembra direttamente pescata da una collection di b-sides di Ummagumma. Tuttavia intorno a metà disco si avverte un senso di eccessiva densità (Breathe Deeper ne è valido esempio) che avrebbe necessitato di una interruzione, un po come quando nel mezzo di un ballo sfrenato si s corre fuori a fumare una sigaretta. La sensazione è come se anziché 5 canzoni ne siano già passate 8, seppur è comunque un gran bel sentire.

The Slow Rush è forse il compimento definitivo di quello che Kevin Parker vuol sentire fare a se stesso, il non plus ultra di tutte le influenze e dei mood che hanno accompagnato quella che sinora è una discografia dal clamoroso rapporto qualità/quantità. Ma anche un magnifico capitale su cui investire alla ricerca di nuove vette sonore.  

Carmine Speranza

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