Strangeways, Here We Come è il quarto ed ultimo album degli Smiths, pubblicato il 28 settembre 1987 dalla Rough Trade.
13:49:13 – 28/09/2022
L’importanza di finire bene
L’ultimo ricordo è sempre il più importante, in ogni aspetto della vita umana e in ogni tipo di rapporto che abbiamo, diretto o anche, semplicemente, di ammirazione nei confronti di qualcuno. Ad esempio, capita spesso che i grandi sportivi decidano di ritararsi dopo aver vinto un trofeo importante, per non lasciare una sconfitta come ultimo ricordo della propria carriera.
Nella musica, e nell’arte in generale, è più difficile che ciò accada, perché non ci sono vittorie o sconfitte in senso stretto, e quindi è difficile capire quando è il momento di fermarsi. E purtroppo, molto spesso, le band lasciano un ultimo ricordo positivo semplicemente perché non sapevano che quel disco non sarebbe stato seguito da altri. Così è successo con gli Smiths, che hanno registrato “Strageways Here We Come” nel marzo del 1987 e si sono sciolti a luglio, così, quando il disco è stato pubblicato, esattamente 35 anni fa oggi, esso ha rappresentato l’ultimo ricordo.
La voglia di evolversi
Abbiamo definito positiva quest’ultima prova da parte del quartetto, e lo ribadiamo. “Strangeways Here We Come” è un grandissimo disco, e anche gli stessi membri della band hanno espresso a più riprese la loro soddisfazione per come è venuto. L’aspetto determinante non sta tanto nella bellezza delle melodie, o nella qualità dell’interpretazione vocale di Morrissey, o nella profondità dei suoi testi. Questi, per fortuna, sono tutti pregi che troviamo praticamente in ogni singola canzone degli Smiths, ma in queste c’è qualcosa di diverso, ovvero una reale voglia di evoluzione sonora.
Ancora oggi, la band è famosa soprattutto per un sound molto riconducibile alla chitarra di Johnny Marr, coi suoi jangle irresistibili che rappresentano l’ossatura di ogni canzone e che ne valorizzano lo scheletro, con uno stile unico e una capacità innata di far interagire alla perfezione la melodia principale e quella dei riff chitarristici. Ma dopo anni passati a fare quasi sempre questa cosa, i quattro si approcciano a questo disco con la voglia di percorrere nuove strade. Così, nascono 10 canzoni che, inconsapevolmente, suggellano una carriera dimostrando che, se i quattro avessero continuato ad andare d’accordo, avremmo certamente assistito a una storia musicale ancora lunga e densa di contenuti, non certo a un gruppo che si sarebbe trasformato nella cover band di sé stesso.
Nuovi suoni, nuovi strumenti e nuovi arrangiamenti
Sintetizzatori, sax, archi (seppur suonati con la tastiera), drum machine, persino Morrissey che suona uno strumento (il pianoforte in “Death Of A Disco Dancer”): per gli Smiths era arrivato il momento di rinnovarsi e di espandere la propria ricerca musicale, e così i quattro hanno puntualmente fatto, senza snaturare la propria capacità, sopra menzionata, di creare azzeccatissime dinamiche tra la melodia principale di ogni brano e quelle delle singole parti strumentali.
Il rischio poteva essere quello di replicare le dinamiche basate sugli arpeggi di chitarra, ma la band è stata, invece, abile nello sfruttare subito bene i nuovi elementi sonori. Sia le melodie, che la struttura degli arrangiamenti stessi, infatti, risultano sempre adattissime allo strumento utilizzato, e il risultato è un inedito senso di ampiezza, che abbraccia l’ascoltatore, invece di colpirlo in modo molto diretto come avveniva in passato.
Gli Smiths e il lascito che lascia in sospeso tante cose
Dalla trascinante sfrontatezza dell’iniziale “A Rush And A Push And The Land Is Ours”, alle saturazioni di “I Started Something I Couldn’t Finish”, alla ricerca di spensieratezza in “Girlfriend In A Coma”, alla dolente frustrazione di “Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me”, alla gentile fermezza della conclusiva “I Won’t Share You”, gli Smiths non si ripetono mai e tracciano dieci diverse strade, una per ogni canzone, che avrebbero potuto rappresentare ognuna un nuovo modo di fare musica, o quantomeno un nuovo inizio.
Se non sapremo mai come si sarebbero mossi da qui in poi, nel caso avessero continuato, possiamo essere certi che “Strangeways Here We Come” aveva creato una base di partenza molto ampia e una tavolozza ricca e variegata, partendo dalla quale i quattro avrebbero potuto fare tutto e il contrario di tutto. Per fortuna, possiamo almeno godere per l’eternità dell’incredibile musica che hanno fatto per davvero e che rimarrà sempre con noi.
Stefano Bartolotta