Quindici anni da ‘Funeral’ degli Arcade Fire, capace di suonare già come un classico la prima volta in cui lo abbiamo ascoltato

 

Oggi si sente dire spesso che non ci sono più i dischi davvero influenti, generazionali, che suonano già come classici al primo ascolto. Non mi addentrerò in questo ginepraio in occasione della celebrazione dei 15 anni di Funeral, ma dirò solo che, se affermazioni come questa sono probabilmente il classico luogo comune con un fondo di verità, allora ci dovrà essere un confine temporale, ovvero un ultimo grande disco davvero influente, generazionale, e che suonava già come un classico la prima volta in cui lo abbiamo ascoltato. Qualcuno ritiene che la risposta a questa domanda consista nel debutto degli Arctic Monkeys datato 2006, ma, probabilmente, se si facesse un sondaggio tra appassionati, vincerebbe proprio Funeral, di cui oggi si celebrano i 15 anni dalla pubblicazione, anche se, fuori dal territorio nordamericano, la sua vera diffusione avvenne qualche mese dopo, ovvero all’inizio del 2005. Cos’è, quindi, che rende questo disco influente e generazionale? Cosa lo fa suonare come un classico già al primo ascolto? Il primo e più importante pregio, in questo senso, è una visione artistica chiara, nitida e di alto profilo. Gli Arcade Fire non hanno mai incarnato lo stereotipo della band al debutto che ci mette tanto cuore ma pochi mezzi tecnici: al contrario, sono stati fin da subito un collettivo preparatissimo tecnicamente, e che, soprattutto, sapeva perfettamente dove andare e come arrivare al punto desiderato. Mi piace vedere un passaggio della mia canzone preferita del disco, ovvero Neighbourhood#1, come un manifesto dell’intero lavoro, e direi dell’intera carriera della band: mi riferisco a quando Win Butler spiega nel testo “di esser convinti di ciò che si vuol fare scegliendo bene le cose che vuoi per ottenere lo scopo di cui sei fortemente convinto”. 

E lo scopo degli Arcade Fire, in questo disco, era quello di ottenere una grandeur musicale che mettesse insieme epos, glam e dark. U2 e David Bowie sono influenze innegabili, e per quanto riguarda il lato dark/post punk, il ventaglio di opinioni è più ampio (io, personalmente, un po’ di Bauhaus ce li sento), ma non è questo il punto, perché la band ha saputo davvero elaborare un suono e un’attitudine propri, e da lì in poi si è accostato a decine di band un suono “alla Arcade Fire”. Questo, perché, riprendendo quanto detto sopra, il gruppo non ha avuto paura di puntare in alto, di essere ambizioso, di porsi su un piedistallo, sicuramente rischiando di finire fuori giri o comunque di suonare pretenzioso, ma si sa, “no risk it, no biscuit”, e il biscotto impastato e cotto dagli Arcade Fire è di quelli che segnano un’epoca. Questo traguardo, ovviamente, è stato raggiunto perché la visione, l’attitudine e il profilo creativo di cui sopra sono stati poi concretizzati sempre in modo perfetto in una serie di canzoni mozzafiato, i cui particolari sono perfetti per far funzionare il brano in sé e, allo stesso tempo, per dare al lavoro complessivo un’organicità stupefacente.

Inutile addentrarsi nella descrizione di canzoni che, ammettiamolo, chi sta leggendo questo articolo conosce a memoria; dirò solo che, in tutta l’ampia durata del disco, gli Arcade Fire mostrano di sapere sempre e comunque quando saturare il suono e quando renderlo essenziale, quando puntare su armonie rotonde e quando basare le atmosfere sulle dissonanze, quando procedere con un mix di pesantezza e impatto tipico del passo dell’elefante e quando puntare su leggerezza e svolazzi ispirandosi a una farfalla, quando mantenere il ritmo costante e quando creare saliscendi, progressioni e cambi repentini.

Il risultato è, così, avvolgente e trascinante dal primo all’ultimo secondo, da quando Win riflette su quanto le convenzioni sociali abbiano sporcato per sempre la purezza umana, a quando Regine Chassagne canta un’ode tanto improbabile quanto realistica alla solitudine del posto posteriore. La convinzione in sé stessi e la chiarezza di intenti non hanno mai smesso di caratterizzare la fortunata carriera degli Arcade Fire, e penso che questo lo si possa affermare al di là di ciò che uno pensa degli altri loro dischi, dei quali, personalmente, ne apprezzo due su quattro, però riconosco una base solidissima anche nei due che non mi piacciono.

Perché quando si parte così bene, anche se la popolarità non è subito immediatissima (ricordo che il primo concerto italiano fu nel maggio del 2005 a Milano con non più di 3-400 persone presenti e un costo del biglietto che ammontava a 13 euro), è difficile che il livello si abbassi oltre un certo limite, proprio perché le fondamenta saranno sempre solide e ideali per ottenere grandi risultati. Per cui, lunga vita agli Arcade Fire, e amore eterno per Funeral, il disco che ha fatto sì che il percorso della band fosse così rilevante, proprio perché ne ha gettato le basi.

Stefano Bartolotta 

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