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Quando PJ Harvey divenne grande: ‘Let England Shake’

Let England Shake di PJ Harvey ha richiesto tre anni circa ma è stato registrato in soli due mesi, tra aprile e maggio del 2010.

11:46:14  – 14/02/2021


 

Dieci anni fa PJ Harvey non doveva certo dimostrare niente a nessuno: con una discografia ricca di grandissimi lavori, il suo talento e la sua personalità avevano già avuto modo di declinarsi in differenti forme tutte di indiscutibile spessore. Eppure qualcosa da tempo stava maturando in lei e come solo i grandissimi artisti sanno fare, questo tarlo riuscì a spingerla oltre a diventare grande, sfidando se stessa e le sue capacità su un terreno che poteva essere davvero scivoloso, come quello affrontato nel suo ottavo disco Let England Shake.

Una nuova prospettiva

Dall’uscita di White Chalk erano passati oltre tre anni e in questo lasso di tempo la cantautrice inglese si era impegnata strenuamente per poter cambiare la prospettiva e volgere lo sguardo più in là dell’introspezione e delle relazioni umane più contingenti. Del resto, da sempre PJ Harvey aveva avuto l’ambizione di raccontare archetipi che travalicassero il qui e ora, per tratteggiare personaggi, sentimenti, storie dal sapore arcaico.

In questo caso, l’ambizione ma soprattutto la sensibilità la portano ad accrescere se stessa in anni di studio incessante sulla parola e sulle sue capacità espressive: un lavoro lungo e paziente per sentirsi davvero all’altezza di raccontare quel lato oscuro dell’umanità che da tempo sente di dover indagare: la violenza e la sopraffazione dei conflitti e delle guerre.

PJ Harvey e la centralità della parola

These are the words/the words that maketh murder”.Un tema impegnativo che ha da sempre ispirato parole importanti: basti pensare ai poemi epici e ai canti di guerra tramandati oralmente, che hanno usato la liricità e la forma cantata per essere diffusi fra popoli. In questa direzione si muove anche Let England Shake: la parola sta al centro di tutto, diventa potente strumento di conoscenza, a invocare un’empatia umana contro la devastazione e la distruzione.

Per la prima volta nella sua carriera, l’autrice del Dorset parte esclusivamente dal testo, ci lavora a lungo e soltanto dopo aver messo insieme un materiale soddisfacente, inizia a intonare quelli che finiscono per essere delle autentiche poesie, che si reggono in piedi anche al di là della musica. Una musica sempre più asciutta, dal sapore marziale ma evocativo, nella quale un ruolo di rilievo lo giocano l’autoharp, gli innesti di sax, la ritmica battente e soprattutto la parte vocale, dove la Harvey splende più che mai in una coralità ricercata supportata dai controcanti maschili di John Parish e Mick Harvey.

Il declino dell’amata Inghilterra

The West’s Asleep England’s dancing days are gone. L’attrazione e la repulsione per la propria terra è un tema che attraversa costantemente Let England Shake. PJ Harvey sembra quasi dialogare con una parte di sé che ama così tanto il suo paese da non potersi perdonare per quello che esso è diventato.

Per questo lo esorta a scuotersi dal declino che sta portando l’intero Occidente ad essere il principale artefice di conflitti insensati, causticamente paragonati a quel passato recente (la battaglia di Gallipoli) fatto di terra insanguinata e morti su morti causati da una cieca e irragionevole cupidigia. Il declino è raccontato per contrapposizione, con immagini che evocano la bellezza della natura violata dal cieco furore della morte: mucchi di ossa sulle colline, terra colorata di rosso, braccia di soldati che diventano rami amari (Bitter Branches), montagne maledette e campi e foreste attraversati da soldati che non torneranno più, alberi che accolgono pezzi di cadaveri, fontane di morte. S’invoca The Last Living Rose e i paesaggi placidi di una notte illuminata dalla luna in un’esortazione disperata a far trionfare la natura buona contro quella crudele che ha “svenduto il Tamigi per niente”.

La fotografia come fonte d’ispirazione

Ispirata dall’arte fotografica di Seamus Murphy e dalle sue immagini di Iraq e Afghanistan, PJ Harvey riesce così a raccontare in modo più visivo ed evocativo che prosaico scenari di devastazione e visioni disperate. Non c’è un solo momento del disco in cui affiori una speranza reale di redenzione. La natura crudele vince (Cruel Nature has won) assieme all’indifferenza e i frutti stessi della nostra terra finiscono per essere dei bambini orfani e deformi (“The Glorious Land”).

Eppure riesce a farlo senza mai scadere nella retorica e nella pesantezza, ed anzi, arrivando a vette di lirismo eccelso (l’uno-due “All and Everyone” e “On Battleship Hill” è sublime) e lasciando spazio anche a melodie ariose e perfino dal sapore raggae. In questo senso, “Written in The Forehead” è un episodio che si discosta molto dal resto del disco e che fa intravedere quelli che saranno gli sviluppi futuri in “The Hope Six Demolition Project”, con il tema della sopraffazione declinato sul versante-economico.

Perché una cosa è certa: una nuova PJ Harvey è nata, quella che ci racconta il mondo decadente e sanguinario in cui viviamo, e lo fa con un talento e una dedizione che solo certi artisti riescono a mettere in campo: la consapevolezza di chi ha capito di essere diventata davvero grande.

Patrizia Cantelmo 

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