25/04/2024
Con quale logica affrontare un disco come il nuovo Gigaton, uscito a quasi tre decenni di distanza dall’esordio dei Pearl Jam?

 

 

Etichetta: Monkeywrench Records / Republic Records
Genere: Rock, Post Grunge
Release: 27 marzo 2020

Recensire una band come i Pearl Jam è qualcosa che ci espone sempre al rischio di risultare inadeguati a prescindere. Con quale logica affrontare un disco come il nuovo Gigaton, uscito a quasi tre decenni di distanza dall’esordio della band di Seattle?

Qualunque paragone con i dischi degli esordi (almeno quelli della trilogia che si chiude con Vitalogy, 1994 – ma forse anche a quelli immediatamente successivi) declasserebbe il disco in questione a uscita di serie B. 

Il tutto potrebbe scadere nel dimenticatoio, per diventare elemento utile solo per attingerne qualche episodio e
riproporlo nella sua dimensione live.  Chiunque affronti quest’album con uno qualunque dei suddetti approcci, lo stroncherebbe. Da anni ormai, i Pearl Jam, non possono più essere quelli degli anni ‘90, e non solo per cause anagrafiche, ma anche perché è cambiata la funzione, la narrazione e la tipologia di pubblico di un certo tipo di rock.

Ecco quindi che i PJ scontano – come tante altre band coeve “sopravvissute” al sopraggiungere del nuovo millennio –  limiti non propri, ma legati a fattori esterni. L’unica alternativa sarebbe per loro smettere: ma considerata la qualità media dei brani di questo disco, e l’assoluta garanzia di successo di ogni loro tour, perché mai dovrebbero farlo?

Questo Gigaton va ascoltato evitando di porre l’accento sul paragone con il glorioso passato della band senza però dimenticare le motivazioni che possono spingere questa band a fare uscire nel 2020 un disco così.

Disco che ha il grande pregio di suonare vero, urgente e quindi credibile. Chi si aspettava grandi novità è stato forse troppo influenzato dalla notizia dell’avvicendamento in cabina di regia avvenuto tra Brendan O’Brien , che comunque suona le tastiere, e Josh Evans. 

Si rimane invece nel solco di un rock classico, con l’ormai solita alternanza di brani mid tempo (tra riffoni di chitarre grunge e giri di basso poderosi) e ballate acustiche. Ed è proprio tra le fila di quest’ultime che annoveriamo i migliori brani della band da Riot Act in poi, in un gioco di intrecci e influenze tra i dischi ufficiali della band e la carriera solista di Vedder.

Si parte con Who Ever Said, tipico pezzo pearljamiano per come abbiamo imparato a conoscerli dal self- titled del 2006 in poi, che dovrebbe rendere al meglio nella sua riproposizione live. Sfilano poi i primi due singoli estratti: Superblood Wolfmoon (vedi quanto scritto per Who Ever Said) e Dance of The Clairvoyants, voce graffiante e groove che ti si pianta in testa e non va via.

Anche Quick Escape mantiene alto il tiro, con il magmatico basso di Ament a farla da padrone, un ritornello ficcanaso e l’assolone finale di McCready che promette scintille live. Alright allenta la presa, prima ballata del lotto, sorretta da bellissime percussioni e dal vocione inconfondibile di Vedder. Il “lato B” si apre con altre due cavalcate rock, l’uno-due Never Destination-Take the long Way, ma la tensione scende poi definitivamente per lasciar largo spazio alle ballate, il vero amore dell’Eddie Vedder della maturità.

Su tutte valgono la menzione i sei minuti chitarra-voce di Comes Then Goes e la delicata, accorata River Cross, che chiude il disco con un tappeto d’organo a sostenere un Vedder da pelle d’oca. Un paio di riempitivi sono fuori fuoco, ai limiti del proponibile (su tutti Seven O’Clock e Buckle Up), ma il disco, come accennato, è credibile e tremendamente calato nel suo tempo: se non musicalmente, a livello di testi e di messaggio, anti Trumpiano dalla prima all’ultima nota (Quick Escape), a tratti addirittura profetico (“Were stuck in our boxes / Windows open no more / Could ve lifted up the forget-me-nots”).

Gigaton arriva in un momento non semplice per l’umanità.  La nostalgia di quanto vissuto in quegli anni, per chi c’era, o anche solo della narrazione di quello che fu “Seattle” per chi, come me, è arrivato dopo, non può che essere corroborata da ogni nota di questo nuovo tassello della discografia dei Pearl Jam.

Per gli altri, sono certo, questo disco passerà facilmente inosservato. La voce di Vedder, da anni ormai consacrato a intoccabile icona rock (leggi “dinosauro” per i detrattori) rimane una delle più riconoscibili al mondo: e questo è da intendersi sia in senso reale che figurato. La voce di un sopravvissuto a se stesso che, volente o nolente, rimane uno degli ultimi guru di una generazione di “lost dogs”. 

Nicolas Merli 

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