‘Parklife’, l’orgoglio british dei Blur contro la decadenza

13:16:52  – 25/04/2020

Il trionfo del Brit-pop da classifica

“Well I don’t know how to write a big hit song” cantavano gli XTC sul finire degli anni Ottanta. Chissà se l’allora ventenne Damon Albarn ascoltando una delle sua band di riferimento avrà pensato di poter davvero risolvere il quesito a suo favore, un decennio e passa dopo. Consapevole o meno di averlo fatto, con i suoi Blur nell’aprile del 1994 diede vita a uno degli album più irresistibili e iconici dell’ondata brit pop. Parklife si apriva proprio con la “hit” che già da marzo imballava gli schermi delle music television, Girls and Boys: caricatura a suon di synthpop dell’amore nei Nineties, paranoico e consumistico, fatto di estati usa e getta.

Aggrapparsi alla nostalgia

Kurt Cobain ci aveva lasciato pochi giorni prima, il grunge con i suoi camicioni di flanella e la sua rabbia esistenziale iniziava a perdere la spinta apicale e la valanga british era già pronta a travolgerlo. Ma se il brit-pop per molti appariva come un rigurgito di superficialità e leggerezza, di fatto rappresentava invece la summa di tutta l’englishness di cui i Blur si facevano emblema.

Parka, polo fred perry, giacche a tre bottoni e stivali Dr. Martens simboleggiavano l’orgoglio inglese in salsa mod e il recupero di una tradizione a cui bisognava aggrapparsi per arginare l’americanizzazione. In una delle loro prime session fotografiche si fecero immortalare vestiti di tutto punto davanti a un graffito che recava la scritta “British Image N°1”: un’immagine che parla da sé a suggellare la spinta essenzialmente retrò a cui si rifacevano.

Orgoglio pop e retrò

Lo stesso valeva anche per la musica,per la quale l’orgoglio inglese era tutto ciò di cui avevano bisogno. Devoti ai già citati XTC, la band che rese il pop un affare per niente leggero, i Blur pagano pegno alla mod culture di Who e Jam, ma non solo. L’omaggio vale anche per gli Specials e Madness, senza dimenticare i loro padri putativi, i Kinks. 

In Parklife, però, tante sono le suggestioni da diventare un’aquarello schizoide in cui perdersi ed esaltarsi. Se la già citata Girls and Boys spiazza con un synthpop fin troppo accattivante ma geniale in apertura, le chitarre made in UK tornano subito al centro in Tracy Jacks,, primo ritratto di vita quotidiana da londoners annoiati. Altro tratto caratteristico del disco è l’accentuarsi dell’accento tipicamente cockney, con pronunce esasperate, a volersi calare nella parte del ragazzaccio di periferia dall’inflessione impenitente e arrogante, nuovo modello di “working class hero”(a cui per la verità i Blur non appartenevano davvero).

Mod-culture e non solo

L’orgoglio mod raggiunge l’apice nella title track, in cui viene assoldato nella parte vocale Phil Daniels (l’attore protagonista di Quadrophenia) e Clover Over Dover ispirata proprio al celebre “film mod” per antonomasia. Nel disco ci sono però tracce evidenti di un grande amore musicale di Albarn, il compositore tedesco Kurt Weill, omaggiato esplicitamente nello splendido strumentale The Debt Collector, ma richiamato anche in Far Out e nel bellissimo To The End. In quest’ultimo compare di nuovo il retrò ma questa volta francese in quel “Jusqu’a la fin” sussurrato dalla chanteuse Leatitia Sadier degli Stereolab.

Un concept contro l’american way of life

La decadenza dei tempi viene descritta praticamente in tutto il disco. Al suo interno vengono tratteggiati personaggi anonimi la cui vita finisce per essergli stretta (“I’d love to stay here and be normal/But it’s just so overrated”), riaccesa sei volte in un anno solo dalle Bank Holiday o i cui sogni arrivano nelle vacanze sotto forma di piano B (“Bill Barrat has a simple dream/ He wants to go to Magic America/ With all those magic people”).

Ma anche nello stesso modo in cui si vive l’amore nell’omologazione di End of a Century (“We all say/don’t want to be alone/we wear the same clothes/‘cause we feel the same/and kiss with dry lips/when we say goodnight/it’s nothing special”). A salvarci sembrano esserci solo le suggestioni degli archi di un’amore che si perde nel tempo (To The End) nonché le malinconie del tempo perduto nei paesaggi di un Inghilterra immortale, in un viaggio ideale attraverso le coste inglesi cantato nella sublime This is a Low. Chiusura perfetta e incantevole per avvolgersi in quell’Union Jack che li renderà una della band più importanti del periodo. E non solo.

Patrizia Cantelmo 

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