Malinconico e oscuro: l’omonimo degli Alice in Chains e il triste presagio

Alice in Chains è il terzo album in studio dell’omonima band, pubblicato il 7 novembre 1995 dalla Columbia.

15:48:13  – 10/11/2021


Senza un arto

Mentre le voci di un possibile scioglimento si rincorrono, il 7 novembre del 1995 gli Alice in Chains pubblicano il loro terzo disco, omonimo. Un album che si presenta con una delle copertine più iconiche e allo stesso tempo significative della storia del rock: il primo piano del cane di Jerry Cantrell a cui manca una zampa, immagine che porterà i fan ad identificare il disco col nomignolo di Tripod.

Un’immagine malinconica e decadente che allo stesso tempo sembra contenere un presagio: a breve la band perderà un arto. Un arto importante, la voce storica, uno dei personaggi più controversi e affascinanti della scena grunge, quel Layne Staley che qualche tempo dopo confesserà a Rolling Stones di essere dipendente dall’eroina.

Esclusa qualche fugace apparizione, in cui Staley appare visibilmente provato dalla dipendenza e la registrazione di uno degli Mtv Unplugged più belli della storia, l’avventura del cantante con la band di Seattle si ferma proprio a Tripod, per poi lasciare definitivamente questo mondo nel 2002 nella sua casa, avvolto dalla tristezza che lo ha accompagnato per la sua intera esistenza. Ma l’immagine contiene anche un altro presagio, questo decisamente più positivo, la band saprà restare in piedi dopo avere perso Layne e continuare anche senza un arto e infine sostituirlo con William DuVall. L’avventura della band andrà avanti lo stesso, ma la storia degli Alice è anche questo disco… 

Gli Alice in Chains sono ancora vivi

Musicalmente Tripod è un disco valido, un’ottima prova, anche se perde il confronto con i suoi due predecessori, Dirt e Jar of Flies. Un album che malgrado tutto contiene pezzi che lasceranno il segno e altri che fanno degnamente il loro mestiere. Il disco si apre con Grind, forse la traccia più aderente nei testi e nella musica alla storia della band.

Un pezzo che si apre con la batteria di Kinney che batte cadenzata, accompagnata poi da trenta secondi della chitarra cupa di Cantrell, a rendere il clima più claustrofobico invece si aggiungono le corde vocali di Staley in gran forma a dispetto delle altre parti del suo corpo martoriato dalla dipendenza.

Nel testo sembra essere l’inconscio dello stesso Staley a parlare, a chiedergli di lasciare il suo corpo morire per liberarlo per sempre del dolore che si porta dietro (Let the sun/ Never blind your eyes/Let me sleep/ So my teeth won’t grind). Brush away è pezzo che si trascina lento, ma con la carica aggressiva solita degli Alice, in Sludge Factory si sentono echi di Blues, poi si arriva all’altro pezzo forte: Heaven Beside you, una ballad che contiene nel testo un’insolita nota di speranza (Heaven beside you, Hell within/And you Know you have it still/Heaven inside you). In Head Creeps la voce di Stayne, condita da un effetto e i cori che l’accompagnano sembrano venire fuori dall’inferno che Layne ha dentro, un cantato che sembra preso in prestito da un disco di Rob Zombie.

Tracce interlocutorie come Shame in You, Nothin’ Song” e Frogs proseguono il disco. Nel mezzo, degne di nota sono God Am che sembra strizzare l’occhio ai pezzi più punk dei Nirvana e la psichedelica So Close. A chiudere sono i versi di Over Now, i primi suonano quasi di speranza se si chiudono gli occhi e si immagina un destino diverso per Layne (But i can breathe somehow/When it’s all worn out/i’d rather go without/You know its been on my mind), gli ultimi invece suonano decisamente più malinconici e tragicamente profetici (Yeah, we pay our debt sometimes).

Con questo disco si chiude quello che è unanimemente riconosciuto come il capitolo più importante della storia di una delle band più influenti e rispettate della scena di Seattle, un capitolo intriso di sangue, tristezza, ma che ci ha regalato quattro dei dischi più importanti del rock anni novanta.

Vito Ricco

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