26/04/2024
Primo numero di ottobre delle uscite discografiche della settimana con in cima alle nostre preferenze gli album di Daphni, Alvvays, Sorry, Oh Wonder e Indigo Sparke. A seguire prestate attenzione a Jean Dawson, ai Gilla Band, ai Fucked Up, ai Bush, ai The Orielles, all'ennesimo disco dei King Gizzard, ai Disq e Little Pieces Of Marmelade.

Primo numero di ottobre delle uscite discografiche della settimana con in cima alle nostre preferenze gli album di Daphni, Alvvays, Sorry, Oh Wonder e Indigo Sparke. A seguire prestate attenzione ai Gilla Band, ai Bush, ai The Orielles, ai Disq, a Bonny Light Horseman e Little Pieces Of Marmelade.

a cura di Giovanni Aragona, Stefano Bartolotta, Patrizia Cantelmo, Chiara Luzi e Cristina Previte

12:15:47  –  07/10/2022



ALVVAYS – BLUE REV
(indie-pop)

Attesissimo terzo disco per la band canadese che, diciamolo subito, rispetta in pieno le aspettative e piazza un album che sarà presente in modo massiccio nelle classifiche di fine anno. L’aspetto che colpisce particolarmente è la continua ed esponenziale crescita nel modo in cui il gruppo riesce a esprimere le proprie caratteristiche, che già sembrava praticamente perfetto nel debutto e che, invece, i cinque hanno sempre meglio definito e affinato nei lavori successivi.

Parliamo, quindi, sempre di melodie morbide, di riverberi gentili e avvolgenti e di un cantato che dà la giusta dose di sentimento a tutto l’impianto, ma, ripetiamo, tutto confezionato ancor meglio che in passato, con un set strumentale più ampio, soluzioni in sede di arrangiamento più varie e una qualità superlativa. Gli Alvvays sono un caso più unico che raro al giorno d’oggi, quello di un progetto musicale partito già benissimo e che continua a migliorare.
(S.B)


SORRY – ANYWHERE BUT HERE 
(post-art-pop)

Dopo il dolente e introspettivo debutto, il quintetto londinese torna a farsi sentire con un po’ più di ritmo nel proprio sound e atmosfere un po’ più disimpegnate. Non bisogna aspettarsi certo una rivoluzione copernicana, ma l’evoluzione è chiara e lì da ascoltare: la proverbiale intensità della band è ancora ben presente ma, come detto, è espressa in forma diversa e la frustrazione e il senso di alienazione in primo piano nel 2020 lasciano spazio a squarci di luce e a un’analisi dei sentimenti umani maggiormente contemplativa.

La cosa importante è che il talento melodico e interpretativo dei cinque non è assolutamente svanito e anzi, almeno dal punto di vista dell’esecuzione, c’è un chiaro miglioramento, con una prima metà ricca di intrecci strumentali e ritmici davvero efficaci e una seconda metà più scarna ma comunque con scelte sempre vincenti. Entrambe le declinazioni risultano perfette per valorizzare lo scheletro delle canzoni, e far emergere il sopra descritto aspetto emotivo. In definitiva, un ottimo modo per impostare un percorso che ha tutto per poter risultare ricco di soddisfazioni a lungo.
(S.B)


DISQ – DESPERATELY IMAGINING SOMEPLACE QUIET
(indie-rock)

Il quintetto di Madison, Wisconsin, aveva già fatto capire su quali coordinate stilistiche intendesse muoversi già dal titolo del debutto uscito nel 2020. “Collector”, infatti, era un chiaro omaggio all’idea di collezionare dischi, poi ascoltando le canzoni, si capiva che quei dischi erano stati pubblicati negli anni Novanta. Da questo punto di vista, non cambia nulla in questo secondo album, e anche la presentazione precisa subito che si tratta di un ascolto in grado di rimandare al 1998.

Anni Novanta, però, può voler dire tante cose, ed è qui che sta la novità per i Disq, nel senso che, se due anni fa si puntava maggiormente sulle suggestioni date dagli intrecci di chitarre elettriche e acustiche, qui si cerca una maggior compattezza sonora con brani più concisi e diretti, con lo scheletro della canzone, ovvero le melodie e il cantato, che hanno maggior valore nell’economia delle canzoni. Tutto il ventaglio dell’indie americano più melodico e schietto, quello da one-two-three-four e via andare viene omaggiato in queste 12 canzoni, ma, come accadeva nell’esordio, la maturità e la coerenza stilistica sono evidenti, anche in virtù dell’ampliamento degli strumenti utilizzati, con qualche tastiera in più.
(S.B)


LITTLE PIECES OF MARMELADE – OLOGENESI
(alt-rock)

Se non avete intenzione di dare credito a questa band perché ha partecipato a X-Factor, sappiate che vi state perdendo qualcosa. Il duo marchigiano, infatti, è in grado di proporre un alt-rock di gran livello, nel quale l’irruenza e la genuinità vanno a braccetto con un songwriting validissimo e una produzione, a cura di Manuel Agnelli, ben congegnata per far emergere la forte carica emotiva di queste canzoni.

“Ologenesi” è un lavoro che rifugge molte delle dicotomie che caratterizzano la musica di oggi: ad esempio, non è melodico, ma non è nemmeno a-melodico; non è cantato in senso stretto, ma non è nemmeno parlato; non è moderno, ma nemmeno pienamente retrò. Semplicemente, è un disco che rappresenta la genuina espressione di una personalità non solo artistica, ma umana, e anche il fatto che i testi non sempre rispecchiano il cosiddetto politically correct fa parte del pacchetto. I Little Pieces Of Marmelade ci dicono, semplicemente, di prendere o lasciare, avvertendoci che, se non prendiamo, non troveremo comunque nulla di simile in nessun altro lido.
(S.B)


INDIGO SPARKE – HYSTERIA
(indie, folk, songwriting)

Solamente lo scorso anno Indigo Sparke aveva debuttato egregiamente con Echo, un disco molto intenso e sospeso dietro cui si celava la collaborazione di Adrienne Lenker. Oggi la musicista australiana torna con il suo nuovo progetto, Hysteria e questa volta ad accompagnarla nel suo viaggio c’è Aaron Dessner. La Sparke ha iniziato a scrivere questo lavoro due anni fa, nel mezzo di una crisi personale a cui si è affiancata la crisi globale. Hysteria è quindi un album molto intimo, in cui l’artista racconta la difficoltà di andare avanti cercando di superare rotture e perdite di affetti.

Se la delicatissima voce della Sparke ci culla per tutti i quattordici brani, sono le chitarre e le sovrapposizioni sonore a rendere la struttura del lavoro solida ma al contempo leggera e fluttuante, Infinite Honey. Hysteria è guidato dalla grazia e dal fuoco del dolore, ogni brano è un tassello della storia personale che, tramite uno spiccato talento compositivo, Sparke ci racconta con passione, Set Your Fire On Me, e assoluto candore, Real.
(C.L)


BUSH – THE ART OF SURVIVAL 
(alternative rock, post-grunge, hard-rock) 

Il nuovo disco della band britannica, guidata da Gavin Rossdale, è il nono lavoro in studio arrivato a 2 anni di distanza dal precedente “The Kingdom”. È stato scritto e registrato durante tutto il 2022 e ha visto i Bush ritornare a collaborare con il produttore Erik Ron. In due tracce la band ha collaborato anche con il compositore cinematografico e produttore Tyler Bates.

 Il tema portante dell’album parla della sopravvivenza dell’umanità contro le avversità. Delle persone che trovano un modo per andare avanti. Alla capacità di recupero di fronte alla guerra, a infiniti casi di razzismo, alla politica di genere, rinnovando il DNA e il passato glorioso della band con un sound ancora più corposo e irruento, che fa dei riff pesanti la sua spina dorsale e della voce di Rossdale la sua anima. È un prodotto che riesce in molti momenti ad emozionare e galvanizzare. Non è destinato a durare, ma possiamo pur sempre goderci il piacere effimero di un momento che sappiamo finirà.Bush hanno dunque fatto centro e hanno sfornato un ottimo album, dimostrando che, con rinnovato entusiasmo e spirito d’intesa, si possono ancora trasmettere emozioni forti e genuine.
(C.P)


DAPHNI – CHERRY 
(Tech House, Deep House, Electronic)

Dan Snaith rispolvera il progetto Daphni dopo una pausa di cinque anni e lo fa riemergendo con un lavoro corposo e solido. L’idea è quella di tenere in vita un progetto diverso rispetto al “mentale” Caribou e Daphni continua, con piacere, ad essere un progetto brillante ma meno pretenzioso rispetto al moniker originale. Cherry è intrecciato da 14 tracce che tanto rassomigliano ad un piacevole dj set infarcito da house, techno, disco, funk e un’infarinatura di psichedelia. Snaith gode della libertà che Daphni gli concede e quest’ultima creatura non è semplicemente una ricca e sperimentale immersione per chi ascolta, ma è anche un’ottima parentesi sonora di questo straordinario artista dei giorni nostri.
(G.A)


GILLA BAND – MOST NORMAL 
(noise rock)

Dei Gilla Band abbiamo sempre apprezzato la capacità di saper creare muri e incubi sonori. Il risultato è un’enorme miscela di subliminali suoni partoriti da un racconto di Kafka. Most Normal è un’opera di brillante e sottile provocazione,  e anche quando i barlumi di bellezza pop occasionalmente emergono, come durante i momenti di apertura (della stupenda) “Almost Soon“, alla fine, quella apparante quiete viene sepolta da selvagge esplosioni di dissonanza e liquida psichedelia. Un disco enorme.
(G.A)


THE ORIELLES – TABLEAU
(indietronica, neopsichedelia)

Verrebbe da dire “piatto ricco mi ci ficco”: se ci perdonate l’esordio da bar, questo quarto disco del trio inglese Orielles è decisamente pieno di ingredienti da leccarsi i baffi per chi ha bazzicato i Nineties e – fuor di metafora – di sonorità e influenze le più disparate, dallo shoegaze all’acid funk, dall’indie-rock all’electro, fino alla jungle.

Impossibile non pensare a nomi come Broadcast o Stereolab nell’ascoltare questo Tableau, non a caso un titolo che richiama un tavolo dal french-touch, una tavolozza di colori a cui attingere per comporre quadri sonori o meglio ancora, le pennellate in un film d’animazione: i risultato di questa miscela sono, infatti, composizioni dal forte potere visivo e dal sapore cinematico, che sembrano fluttuare nello spazio e nel tempo. Un disco da ri-ascoltare attentamente per coglierne al meglio ogni suggestione, ma che conquista fin dal primo ascolto senza bisogno di troppe coordinate cervellotiche: come a dire, prendete e gustatene tutti.
(P.C)


BONNY LIGHT HORSEMAN – ROLLING GOLDEN HOLY
(alt-folk,songwriting)

Seconda uscita per il super-gruppo formato da Anaïs Mitchell, Eric D. Johnson (Fruit Bats/The Shins) e da Josh Kaufman (Muzz/The National) che un paio d’anni fa aveva conquistato molti con la potenza della semplicità delle loro ottime canzoni. Sostenuti dall’armonia della voce della Mitchell e dalle ariose composizioni per chitarra capaci di planare verso l’alto e di scendere nei profondi abissi esistenziali senza risultare pesanti, i Bonny Light Horseman si confermano anche con questo nuovo disco campioni di un certo revival folk che sa fortemente di West Coast e 70’s, con dei veri e propri gioiellini estratti dal cilindro del loro talento e esperienza.

Alcuni pezzi (Comrade Sweetheart o il singolo California) suonano come dei classici senza la patina della polvere che un progetto del genere rischia di portare con sé; rispetto al precedente, aumenta la varietà degli elementi che si mescolano, fino a ricordarci l’eclettismo delle grandi band dei primi 70, su tutti Fleetwood Mac e certi Grateful Dead. Disco imperdibile per gli amanti di queste sonorità.
(P.C)


OH WONDER – 22 MAKE 
(indie-pop)

Un lavoro che ha tanto il sapore del romanzo sentimentale di una coppia felice. Pieno di calore e di zuccherose trame indie pop bagnate da elettronica glitchy per un risultato, finale, delicato e sopraffino. Un disco nato durante il lockdown che, oltre a sancire un legame sentimentale stabile di una coppia, ha inanellato l’ennesimo buon disco del duo.
(G.A)


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