La prima settimana autunnale del 2020 è di quelle da ricordare. Tantissime uscite discografiche da segnalare in questo piacevole settembre costellato da grandi ritorni e piacevoli scoperte. Iniziamo subito con gli Idles, giunti al terzo album in carriera, passando per Sufjan Stevens, i seminali Deftones, i Public Enemy e Bob Mould. Grande interesse intorno ai dischi di Thurston Moore e Will Butler degli Arcade Fire, così come vi segnaliamo due dischi provenienti dall’affascinante Svezia: Anna von Hausswolff e gli Stars In Coma. A seguire prestate attenzione ai nostrani MasCara, Profligate e il suo darkwave, l’hardcore di Landowner, Wax Chattels, la raffinata elettronica di Sophia Loizou, Khotin e il jazz targato Chiminyo.
09:25:18 – 25/09/2020
a cura di Giovanni Aragona, Stefano Bartolotta, Paolo Latini e Chiara Luzi

IDLES – ULTRA MONO
(post-punk)
Che piaccia o no gli Idles sono la band del momento. Il gruppo, giunto al terzo disco in carriera, dimostra definitivamente che il punk può sia spingere contro l’establishment sia fare appello al mainstream. Gli Idles hanno unificato masse di ascoltatori non solo sulla base squisitamente musicale ma anche su una solida base politica e ideologica.
Ultra Mono suona, nel suo complesso, molto bene e al netto di 12 brani, spalmati in 42 minuti, la qualità delle canzoni è buona. Tante validissime scorribande post punk e nel mezzo un gioiello: il singolo War, di autentica ferocia e molto figlio dei Black Flag. Soprusi, disuguaglianza razziale, sociale e di genere, raccontati con una schiettezza rigenerante di cui solo una band punk sarebbe capace.
(G.A)
DEFTONES – OHMS
(nu metal, alternative metal)
Il nono disco dei Deftones potrebbe tranquillamente ascriversi alla summa totale di 25 anni di carriera. La band, ora, è diventata matura ed è pronta a coinvolgere anche nuovi adepti. Ohms è un corpo di lavoro trascendentale che amalgama perfettamente la bellezza e la brutalità del suono dei Deftones, soddisfacendo i gusti dei fan sia vecchi che nuovi. Il loro nono sforzo diventerà una delle uscite più dinamiche nell’intero catalogo della band. Non solo nu metal ma anche tanto shoegaze crudo e puro.
(G.A)
THURSTON MOORE – BY THE FIRE
(noise rock)
Lo scorso anno Thurston Moore ha pubblicato Spirit Counsel, un complesso lavoro molto ispirato dai compositori sinfonici di chitarra come Glenn Branca e Rhys Chatham. Per un tempo, in molti abbiam giustamente pensato che la strada dell’ex giovane sonico fosse questa. Fino a stamattina. Thurston Moore è ritornato alle origini e ha ripreso possesso dei graffi sonori noise costruiti intorno a strutture pop. Il risultato è eccellente e il disco è un affascinante e rilassato shuffle sonoro, completo di toni di chitarra meravigliosamente intrecciati simili ad una pellicola di Polanski, anzi, simile alla “trilogia dell’appartamento”: grottesca e rumorosa. Thurston Moore ha abbandonato i recenti esercizi da conservatorio ed è tornato nel 1990.
(G.A)
WILL BUTLER – GENERATIONS
(art pop)
Che Will Butler, polistrumentista membro degli Arcade Fire, fosse una personalità eclettica era cosa già nota. In questo suo secondo lavoro solista il minore dei fratelli Butler rinsalda questa sua fondamentale prerogativa. Generations è un album incredibilmente vario e ben suonato. Troviamo molta elettronica, riferimenti disco, suggestioni punk, Betlehem, e ovviamente anche una eco dei più classici Arcade Fire in Surrender. Butler ci regala un disco complesso ma molto coeso che è un vero piacere ascoltare.
(C.L)
SUFJAN STEVENS – THE ASCENSION
(elettronica, baroque pop)
L’azione dell’ascesa suscita nell’immaginario, sia sacro che profano, un senso di magnificenza e sospensione. Sono esattamente queste le sensazioni che di primo acchito pervadono l’ascoltatore che si avvicina a questo nuovo lavoro di Sufjan Stevens. The Ascension, ottavo album in studio, è stato registrato in solitaria, prima che la solitudine venisse imposta dal lockdown. Stevens si è avvalso solo del computer, di una drum machine, pochi synth e strumenti per creare le texture rarefatte del disco.
Lo stacco dalle sonorità di Carrie & Lowell è evidente, il cantautore viaggia su nuove strade poiché ha bisogno di questo preciso linguaggio per raccontare l’attuale sensazione di straniamento dal mondo. I quindici brani richiedono un ascolto dedicato, ma è ben chiaro che ci troviamo di fronte alla perfetta colonna sonora di un’ascensione spirituale, emotiva, fisica.
(C.L)
PUBLIC ENEMY – WHAT YOU GONNA DO WHEN THE GRID GOES DOWN?
(hip-hop)
‘The year is 2020, the number’, cambia l’anno (in origine il 1989) nel remix 2020 di Fight the Power ma non cambiano i motivi per cui è necessario ‘combattere il potere’. E quando le metaforiche armi chiamano, i Public Enemy rispondono. What you gonna do when the grid goes down?, quindicesimo album in studio,é un disco fortemente ispirato dalla protesta Black Lives Matter e dalle tensioni socio politiche che in questi mesi stanno attraversando gli Stati Uniti.
I 17 brani sono un perfetto ponte temporale che collega il presente al passato. Il sound corposo, arrabbiato è old school allo stato puro. Il disco è pervaso da una incredibile energia che resta forte per tutti i 44 minuti di durata. Numerosi i featuring presenti fra cui: Cypress Hill, Nas, Questlove, Run-D.M.C., Ice-T. Non che avessero bisogno di dimostrarlo ancora, ma i Public Enemy con questo lavoro consolidano il loro status di istituzione del rap.
(C.L)
BOB MOULD – BLUE HEARTS
(alternative rock)
“Blue Hearts” vede Bob Mould osservare il mondo da ogni angolatura. Musicalmente l’album ricorda spesso la brillantezza del martello pneumatico (e la velocità) dei suoi Hüsker Dü al loro apice. In sostanza, Mould è tornato a fare quello che ha sempre ben fatto: il musicista alternative rock sopraffino e completo capace di confezionare un disco politico e grintoso che ha tanto il sapore di questa – a tratti – triste società.

ANNA VON HAUSSWOLFF – ALL THOUGHTS FLY
(Ethereal wave)
La 34 enne svedese torna in pista con il quinto album in carriera. All Thoughts Fly è un piacevole profluvio di preziosi ornamenti capaci di suscitare una sconcertante serie di stati d’animo, emozioni e suoni, passando dalla giocosità primaverile del Teatro della Natura fino a momenti di ambienti lugubri e screziati. Un album molto affascinante e assolutamente avvolgente per cui vale la pena dedicare del tempo per cercarse di perdersi al suo interno.
(G.A)
STARS IN COMA – FAREWELL, BACCHUS POINT
(Indie-pop)
Uno dei progetti più longevi dell’indie svedese torna, a un solo anno di distanza dal disco precedente, sotto forma di una quasi one man band del leader di sempre André Brorsson, che ha scritto, registrato e prodotto il disco e disegnato pure l’artwork, e l’unica altra persona che è intervenuta è la moglie Nicole, che ha suonato sax e flauto in un paio di canzoni.
Dopo aver proposto una versione più introspettiva del proprio stile nel disco precedente, Brorsson torna al proprio lato più colorato e lussureggiante, con una serie di interpretazioni vocali, melodie e arrangiamenti ammalianti, avvolgenti e vivaci allo stesso tempo. Il leader parla di varie influenze prese dalla storia del pop inglese, dalla psichedelia Sixties, al suono cosiddetto Madchester, i Cure, gli Smiths e il britpop, ma la verità è che il suo stile è tra i più riconoscibili del pop contemporaneo, e quando i ritmi, le tonalità e le armonie sono così ben riuscite, è difficile trovare qualcosa di più affascinante.
Per quanto riguarda i testi, il Bacchus Point a cui viene detto addio è la giovinezza, quindi il disco è basato sull’idea di invecchiare e di dubitare della vita che si è condotta fino a quel momento. Questo è un ascolto in grado di conquistare fin dai primi secondi e di non far calare mai l’entusiasmo per tutta la sua durata, come del resto succede già per altri album a nome Stars In Coma, ad esempio “The Confessional Sun” del 2014 e i due gemelli “Escapist Partisans” e “Defunct Summer” del 2017.
(S.B)
MASCARA – QUESTO E’ UN UOMO, QUESTO E’ UN PALAZZO
(Art-soul-rock)
La band lombarda torna dopo sei anni di assenza, con un lavoro sfrontatamente ambizioso, che non ha paura di suonare strano e diverso, sia dal punto di vista degli arrangiamenti, che da quello della struttura dei brani. In entrambi i casi, è tutto articolato e apparentemente caotico, con l’ordine che prova a far capolino ogni tanto, ma che in realtà è solo una diversa espressione di uno stile indefinito, tra chitarre, elettronica e fiati e diverse tonalità vocali che hanno in comune la pienezza e la robustezza.
Anche dal punto di vista dei testi, c’è più la voglia di accatastare assieme una serie di immagini basate su una certa distopia sci-fi, piuttosto che raccontare una storia chiara. Il punto è che un disco così necessita per forza di diversi ascolti per essere capito in pieno, ma la sensazione è che ci siano comunque dei fili, logici o illogici, che uniscono tutta la matassa e ne fanno un insieme a suo modo organico e unitario. È bello, quindi, trovarsi di fronte a questo misto di straniamento e di voglia di accumulare ascolti per far sì che ogni cosa vada al proprio posto nella nostra percezione.
Chi ha concepito e realizzato un’opera così esprime un’audacia sempre più difficile da trovare al giorno d’oggi, e non solo in Italia, e mette in mostra anche tanto talento.
(S.B)
SOPHIA LOIZOU – HOUDSTOOH
(elettronica)

KHOTIN – FINDS YOU WELL
(ambient)
Pare che la sempre ottima Ghostly si sia accorta di Khotin, ossia del producer elettronico Dylan Khotin-Foote, dopo che nel 2018 la sua prima cassetta autoprodotta, Beautiful You, totalizzò un’invidiabile media di 4.5 su Resident Advisor. Ne seguì una riedizione su vinile l’anno seguente e, ora, questo secondo album.
La formula è più o meno la stessa del disco d’esordio, e qui, anzi, le due anime di Khotin sono quasi separate: un lato elettronico che si avvicina al formato canzone e un lato ambient che se ne discosta. Il basso pulsante di “Groove 32” diventa il basso dilatato e calmo di “WEM Lagoon Jump,” così come le inflessioni quasi samba di “Ivory Tower” e di “Heavyball” diventano ariosi tappeti armonici su “Your Favorite Building” e “Shopping List.” Nel complesso tracce eteree e consolatorie, come da programma: quel “finds you well” del titolo è la formula di apertura di molta corrispondenza : “I hope this mail finds you well.” Un buon augurio più che mai necessario in questi tempi. Come la musica consolante e avvolgente di Khotin.
(P.L)
WAX CHATTELS – CLOT
(punk rock)
(P.L)

LANDOWNER – CONSULANT
(hardcore)

PROFLIGATE – TOO NUMB TO KNOW
(darkwave)
Già attivo in diversi gruppi e sempre al crocevia dove si incontrano techno, dark, noise e industrial, Noah Anthony aka Profligate mescola le carte: si passa da tensioni verso il pop elettronico dei primi Depeche Mode (“Hang Up,” “Just a Few Things Wrong” e “A Little Rain” sembrano uscite da Construction Time Again) a asprezze molto più tetre e rumorose (“We Can Punish,” “Drink a Spider”). Quando ormai anche gli Ulver sembra corteggiare pubblico e classifiche, è bello sentire qualcuno che riscopre appieno la vena più impermeabile ai compromessi della vecchia new wave rinata in dark.
(P.L)
CHIMINYO – I AM PANDA
(jazz)
Forse non se ne sono accorti in molti, ma ultimamente nella musica elettronica di confine c’è un ben nutrito filone di veri e propri studi su ritmo e percussioni (Laurence Pike, Photay, Beatrice Dillon, Dan Drohan, tanto per fare dei nomi recenti). Chiminyo si spinge oltre: tranne le voci, prestate qua e là da un gruppo di amici, tutti i suoni di questo disco provengono da una batteria opportunamente collegata a un synth che innesca un campionatore e un qualche programma di conversione, così quelle che sembrano tastiere in realtà non sono tastiere, ma probabilmente dei charleston abbinati a qualche complicato sistema di sample, e il pianoforte non è un pianoforte, ma rullanti, casse e quant’altro opportunamente “istruiti” per riprodurre note di pianoforte a amplificare tutte le proprietà percussive di quello strumento.
Il risultato oltre a essere interessante, è estremamente vario e eccitante, visto che una foresta di suoni come questi non si è proprio mai sentita: a episodi più vicini alle radici jazz di Chiminyo (“Reachin’”) si possono sentire incursioni nei territori vintage dell’acid-jazz (“Breathin’”) e curiosi pezzi per pianoforte e field recordings (“…into the sunkiss…”) e divertissments di batteria dove il ritmo diventa melodia (“…higher together…”).
(P.L)