Le migliori uscite discografiche della settimana| 25 giugno

Ricca settimana di uscite discografiche. In questo numero vi raccontiamo di Tyler, the Creator, dei Modest Mouse, del ritorno di John Grant, dell’ottimo lavoro della giovanissima Lucy Dacus, dei Sault, dei Mountain Goats e Faye Webster. A seguire prestate attenzione all’ambient di Perila.

a cura di Giovanni Aragona, Stefano Bartolotta, Patrizia Cantelmo e Paolo Latini

10:57:22  – 25/06/2021



TYLER, THE CREATOR – CALL ME IF YOU GET LOST
(hip hop)

Da tempo immemore ormai, la critica musicale, cerca di ottenere risposte circa la qualità dello stato attuale dell’hip-hop. La vecchia generazione obietta (e anche tanto) su di un genere dal potenziale espressivo e competitivo ridotto ai minimi storici ma la verità è che l’hip-hop non solo è vivo e vegeto, ma, nell’era di Internet, ha rinvigorito e di tanto il suo potenziale. Esistono artisti come Tyler, the Creator, ad esempio, capace – come pochi – di elevare la qualità sonora di un genere.

Il percorso di Tyler per diventare una leggenda non è sempre stato così facile, anzi. CALL ME IF YOU GET LOST è l’apologia del talento di un compositore capace di celebrare, in 50 minuti,  tutti gli stili musicali che ha abbracciato durante una carriera intera. In questo lavoro l’artista incarna i personaggi di un uomo ricco (Tyler Baudelaire) capace di ostentare costantemente la sua fortuna e i suoi soldi per tutto l’album, di cui si assicura di farci sapere che ne ha molti, ma sembra anche avere difficoltà a trovare un partner con cui convivere le sue fortune. Un lungo wormhole temporale in cui Tyler narra la fortuna, il successo ma anche le difficoltà sentimentali. Superlativo.
(G.A)


SAULT – NINE 
(black music, R&Bsoul)

A sorpresa i Sault hanno estratto dal cilindro un nuovo, accattivante, album. Vi avevamo ben dettagliato nei giorni scorsi di ciò che si stava muovendo in casa Sault. Il collettivo, lo scorso 14 giugno, ha pubblicato una misteriosa foto sui profili ufficiali social. Sfondo nero e un numero 9 a lettere, che annunciava il nuovo album. A distanza di un solo anno dagli ottimi, UNTITLED (Black Is) e UNTITLED (Rise), dai noi nominati tra i migliori album dell’anno, i Sault annunciano un nuovo lavoro. Nine esisterà solo per 99 giorni e quindi non vi resta che divorare questo ennesimo gioiello.

Le trame sonore non si discostano poi di tanto (anzi) rispetto ai lavori precedenti e il suono è sempre corposo e ben compatto. Un viaggio introspettivo all’interno della black music ’70 tra l’hip-hop, l’ R&B old school e il  soul di Philadelphia degno della regina indiscussa Linda Creed. Nine fonde tutti questi genere in un territorio Lounge di meravigliosa brillantezza. London Gangs e 9, le tue pietre preziose di un (ennesimo) ottimo lavoro. Lunga vita al collettivo SAULT.
(G.A)


LUCY DACUS – HOME VIDEO
(indie-rock)

Terzo disco per la talentuosa Lucy Dacus, molto atteso e acclamato fin dai primi singoli usciti (Thumbs in particolare era già conosciuto e amato, senza nemmeno essere edito). La forza della cantautrice statunitense affiliata a Phoebe Bridgers e Julian Baker (con loro l’EP Boygenius del 2018) sta nella sincerità diretta delle composizioni, specie nei testi: in questo lavoro l’autrice ha letteralmente preso spunto dai suoi diari di adolescente per mettere nelle canzoni episodi della sua vita particolarmente significativi. La freschezza delle composizioni è indubbia, le melodie ariose e pulite funzionano perfettamente per inscenare questi quadretti esistenziali. Pezzi pop ma intensi che arrivano subito: nel marasma di voci femminili di qualità, il suo posto d’onore se lo è sicuramente guadagnato.
(P.C)


THE MOUNTAIN GOATS – DARK IN HERE
(indie-folk)

Prolifici come pochi, i Mountain Goats pubblicano un nuovo album a distanza di un solo anno dall’ottimo Getting Into Knives. La band raggiunge quota venti e lo fa andando a creare un lavoro nei leggendari Sam Phillips Studios di Memphis e negli studi FAME di Muscle Shoals. Ne esce fuori un lavoro molto più oscuro rispetto al precedente sorretto da una produzione pressoché perfetta. Dark in Here è il sound omogeneo di un gruppo di grandi musicisti che si sentono molto a loro agio l’uno con l’altro. Le sezione ritmiche di Peter Hughes e Jon Wurster si muovono all’unisono tra fiati e pianoforte in un groove tendente al jazz raffinato.  Dark In Here è il disco della maturità di un gruppo diventato saggio. Un lavoro capace di mescolare estrema intelligenza e capacità sonora come poche in circolazione.
(G.A) 


MODEST MOUSE – THE GOLDEN CASKET 
(alt-rock)

C’è stato un periodo, ormai quasi vent’anni fa, in cui i Modest Mouse sembravano sul punto di sfondare il classico soffitto di cristallo e ottenere quella notorietà che, dapprima, sembrava non essere di loro interesse, ma poi, con una hit come “Float On”, era di colpo lì a un passo. L’indie-rock poi è passato di moda e la band ha lasciato passare molto più tempo di prima tra un’uscita e l’altra, mantenendo viva la propria anima più autentica e dimenticandosi delle velleità da mainstream.

Anche in questo disco, i Modest Mouse fanno, semplicemente, i Modest Mouse, e ci riescono benissimo: la loro identità è ormai tra le più definite e riconoscibili di tutto il panorama, e, anche in queste nuove canzoni, è espressa al meglio, con un perfetto equilibrio tra compattezza e coerenza stilistica da una parte e varietà nei dettagli e mancanza di prevedibilità dall’altra. L’ennesima prova riuscita per una band che merita sempre rispetto e attenzione massimi.
(S.B)


JOHN GRANT – BOY FROM MICHIGAN
(songwriting/synthpop)

Quinto disco per uno dei migliori songwriter degli ultimi anni, ancora una volta mina vagante per chi da lui si aspetta qualcosa di preciso, romanticamente legato al primo strepitoso Queen of Denmark. Se i tempi più intimisti e nudi del suo esordio solista con i Midlake rimangono lontani, questo nuovo lavoro riporta sui giusti binari il talento infinito dell’ex Czars, ri-avvicinandolo a Pale Green Ghost.

Registrato in Islanda (sua patria adottiva) e prodotto dall’amica Cate Le Bon, il disco continua a mischiare l’intimismo cantautorale al synthpop fino a toccare estremi dance ed electro. La qualità dei pezzi è qui però molto alta, al netto di certi episodi robotici e spiazzanti (si pensi a Your Portfolio) ci sono almeno 2/3 pezzi che non sfigurano accanto ai migliori del suo repertorio. Per tacere dei testi che meritano fin da ora la giusta attenzione, in quella che sembra una lettera aperta alla società americana tossica in cui è cresciuto: il Boy from Michigan si è messo la corazza, ma la sua sensibilità continua a sfornare perle.
(P.C)


PERILA – HOW MUCH TIME IT IS BETWEEN YOU AND ME?
(ambient)

Il disco d’esordio di Alexandra Zakharenko, aka Perila, in realtà non è un esordio, ma solo un ingresso su un panorama più internazionale. How Much Time It Is Between You And Me? segue e continua le strade che Perila aveva già battuto sulla dozzina di titoli disponibili nella sua pagina Bandcamp, fino alla collaborazione con Ulla Strauss (blue heather) e al già più maturo META DOOR L, disco per quel che vale finito anche sotto i radar di Pitchfork.

Quella di Perila è una musica ambient disincantata, quasi ingannatrice: parte da elementi ASMR e lenitivi per scendere lentamente nel lato più cupo dell’ambient, quello fatto di droni e field-recordings (“Backyard Echo”), di melodie tanto fragili e precarie (“Time Date”), di synth ora soffici e luminosi (“Memories of Grass”), ora glaciali e minacciosi (“Enchiz”), di indolenze ritmiche (“You Disappear You Find Yourself Again”), intermezzi quasi sci-fi (“Untitled,” “Blanket”). How Much Time It Is Between You And Me?, seppur col lieto fine di “Fallin’ into Space,” rappresenta appieno il lato oscuro della musica ambient e è il primo passo internazionale di una musicista che ha già dimostrato di saper brillare in mezzo a nebbia e buio.
(P.L)


FAYE WEBSTER – I KNOW I’M FUNNY HAHA
(indie-rock, indie-folk)

Teniamo d’occhio questa talentuosa artista dagli esordi e in quest’ultimo lavoro ci aspettavano tanto. La prova è ampiamente superata anche se più che una vera evoluzione dobbiamo sottolineare l’ennesimo riallaccio a tematiche sonore del precedente (e delizioso) Altanta Millionaire Club.  La decisione di Webster di non allontanarsi troppo dalla magia del disco passato è stata una buona mossa. In una pletora infinita di artiste similari, poche riescono a dar forza ad ogni traccia. Faye non ha abbandonato il fascino melodico dei suoi primi lavori, infondendolo con la giusta quantità di mordente. In questo buon disco segnaliamo la meravigliosa I Know I’m Funny haha capace di mettere in mostra tutte le più complete abilità della Webster. I fluidi di chitarra diventano più groovier,e i testi ancor più precisi e sarcastici. Un bell’album, ideale per questo primo scorcio estivo.
(G.A)


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