Le migliori uscite discografiche della settimana| 14 maggio

La settimana di uscite discografiche in corso segna il ritorno in pista di St. Vincent, giunta al suo settimo album in studio a distanza di quattro anni da Masseduction. A seguire, prestate attenzione al ritorno di Iosonouncane: un lavoro “filosofico” e estremamente complesso, capace, al contempo di lasciare senza fiato. Prestate poi attenzione al ottimo Paul Weller, al folk-rock di Damien Jurado, ai Nap Eyes e al ritorno del trip-hop targato Morcheeba. Infine, ecco i Current Joys, il disco solista di Sarah Neufeld degli Arcade Fire, Fightmilk, l’ambient di KMRU, i bolognesi Altre-di B. Per gli amanti dell’hip hop ecco Jorja Smith.

a cura di Giovanni Aragona, Stefano Bartolotta, Patrizia Cantelmo, Paolo Latini e Chiara Luzi



IOSONOUNCANE – IRA
(avantgarde – experimental)

17 canzoni per 109 minuti di durata e un numero pressoché infinito di soluzioni sotto ogni punto di vista: vocale, ritmico, di intensità sonora, di saturazione, di struttura degli arrangiamenti, e così via. Non si vedeva una cosa del genere in Italia dai tempi di wow, e In realtà Iosonouncane si spinge anche al di là dei Verdena in termini di varietà e audacia, dato che non si lega ad alcuna formula tipica di alcun genere musicale, mentre il trio bergamasco è comunque un gruppo rock. La cosa bella di questo lavoro, però, è che non suona per nulla pretenzioso e non pretende di essere ascoltato col massimo dell’attenzione: certamente, se lo si fa, si possono cogliere più sfumature, ma se lo si mette su facendo altro, è in grado di colpire e coinvolgere comunque.

A suo modo, è un disco leggero e conciso, nel senso che ogni singolo momento è in grado di star su da solo, e non va necessariamente legato all’ampio contesto di cui fa parte, anche se, appunto, se lo si fa si ha una visione più compiuta. Un lavoro più che mai per il tempo che stiamo vivendo, nel quale in molti cercano stimoli nuovi dal punto di vista dell’ascolto, ma non vogliono, o non hanno modo e tempo di, concentrarsi al massimo su di esso: questo disco è per loro, e, diciamolo, rende contenti anche noi che spesso riusciamo a immergerci nella musica che ascoltiamo. È un disco che non lascia indifferenti, ma soprattutto, che unisce i vari tipi di ascoltatori, e magari non è una cosa a cui si pensa normalmente, ma è importante.
(S.B)


ST. VINCENT – DADDY’S HOME 
(art rock)

A distanza di quattro anni dal suo ultimo album, Masseduction, St. Vincent è tornata con il suo nuovo gioiello. Daddy’s Home è l’album che ci si aspettava e che, ancora una volta, pone al centro una questione ormai vecchia: l’eroina indie di una tempo è davvero diventata l’icona pop di questa generazione? Non sprecheremo tempo a dettagliare il nostro pensiero circa una potenziale etichetta da appiccicare all’artista, ma ci limiteremo a raccontarvi, in poche battute, come quest’artista, ancora una volta, sia riuscita a trasformarsi sia musicalmente che visivamente confezionando un disco – diario che attraversa i primi ’70 americani prima che arrivasse il punk a cambiar le regole del gioco. Daddy’s Home è un disco caldo, sfumato con tonalità oscure capace di suonare piacevolmente decadente, indulgente e sfacciatamente retrò in ogni suo recondito accordo.

Dove Annie Clark ha fatto un grande uso di suoni vintage in passato, questo è il suo primo album che si tuffa nel profondo e nuota – fino in fondo – nella nostalgia. Il disco è pienamente centrato dall’inizio alla fine, e “Live in the Dream”  è indubbiamente uno dei momenti più importanti di una carriera intera. Scegliamo questa traccia per definire un disco psych al punto giusto, intriso intriso di atmosfere al chiaro di luna, e obiettivamente prodotto (Jack Antonoff) alla perfezione. Il disco è strettamente autobiografico e analizza pezzo dopo pezzo i problemi che hanno afflitto la famiglia dell’artista. Un disco in cui rispecchiarsi e in cui sognare un futuro musicale pieno di soddisfazioni partendo proprio da questo gioiello.
(G.A)


PAUL WELLER – FAT POP (Vol 1)
(pop, brit-pop)

A quasi un anno di distanza dalla pubblicazione di On Sunset, torna oggi Paul Weller e lo fo con un lavoro complesso e luminoso. Fat Pop (vol 1) è, come il disco precedente, un album in cui moltissimi generi si fondono insieme. È un album composto in lockdown: Weller e la sua storica band hanno lavorato a distanza scambiandosi i brani on line. Il risultato sono 38 minuti ricchissimi, si va dal funk, Fat Pop, all’ R&B, Testify. C’è molto rock – pop, c’è sperimentazione, Glad Times. Weller è in forma, la sua voce cuce tutto insieme in maniera perfetta, ha ancora molto da dare e noi siamo felici di ascoltare.
(C.L)


MORCHEEBA – BLACKEST BLUE
(trip hop, pop)

Il blu più scuro è il colore della notte fonda senza luna. Il blu più scuro è uno spazio in cui tutto fluttua lento, dove si resta in quiete, illuminati a tratti dalla luce argentea che filtra fra le maglie più lente. È questo il luogo che i Morcheeba dipingono nel loro decimo album in studio Blackest Blue. Il disco ha le sonorità eleganti tipiche del duo Edwards – Godfrey in cui il pop si fonde al downtempo e ad una eco di blues e trip hop. L’inconfondibile voce vellutata di Skye è luce argentea che ingentilisce il cupo, ma comunque elegante, tono del blu. Il disco è molto introspettivo in cui forte è il tema della perdita. Ci sono dei brani eccellenti, Sulphur Soul, Oh Oh Yeah e nel complesso è un disco ben amalgamato. Nonostante manchi di una spinta verso l’alto si resta ad indugiare volentieri in questa oscurità.
(C.L)


JORJA SMITH – BE RIGHT BACK
(R&B)

Dopo l’incredibile esordio del 2018, Lost & Found, che l’ha letteralmente catapultata in cima alla scena R&B, torna oggi la britannica Jorja Smith. Be Right Back è un mini album composto da otto brani e ben gestito dalla Smith. Non è un seguito del suo primo lavoro, non aspira ad esserlo, ma non è ancora un vero e proprio secondo disco e questo forse ha permesso all’artista britannica di esprimersi con maggiore libertà. La sempre splendida voce della Smith si staglia su ottime sonorità R&B contaminate dal jazz, imponendosi come fulcro di un lavoro interessante sia dal punto di vista lirico che sonoro. Nell’attesa del futuro grande passo di quest’artista ci godiamo questo piccolo monile raffinato.
(C.L)


SARAH NEUFELD – DETRITUS
(experimental)

Il terzo disco solista di Sarah Neufeld, l’ottima violinista degli Arcade Fire, è stato composto in  maniera eclettica: molti dei brani sono stati sviluppati durante alcune performance di danza. Per questo Detritus stesso è più vicino ad essere una vera performance che un disco. Il lavoro vive comunque una propria vita. È un album drammatico e lieve, è un lavoro concettuale in cui il violino si fa carico di tradurre in suono una gamma emozionale vasta ma permeata da una base oscurità. Neufeld sa creare pattern forti e tragici che trovano compensazione nella texture vellutata del coro angelico che scalda i brani. Questo disco è una piccola opera d’arte scolpita da melodie in loop in cui angoscia e bellezza, tormento e pace trovano un perfetto equilibrio.
(C.L)


DAMIEN JURADO – THE MONSTER THAT HATED PENNSYLVANIA
(indie-folk)

Abbiamo perso il conto dei dischi firmati da Damien Jurado, ma fa sempre piacere ascoltarne di nuovi, specie se particolarmente ispirati come quest’ultimo. Primo in assoluto pubblicato per la sua etichetta Maraqopa Records, l’album è una sorta di raccolta di dieci storie che raccontano schizzi dell’esistenza di altrettante persone, accomunate dal ritrovarsi a fronteggiare circostanze difficili. “Balsamo per l’anima” è un frase fatta, eppure si addice benissimo a questo lavoro, nel quale farsi abbracciare per ritrovare la forza perduta, quel coraggio di affrontare un mondo “bugiardo” rivolgendosi alle stelle (come suggerisce in Helena). Il consiglio è di immergersi in questo disco lasciandosi avvolgere sì da melodie riuscitissime, ma facendo attenzione alle preziose parole che contiene: siamo sicuri non potrà che farvi del bene.
(P.C)


NAP EYES – WHEN I COME AROUND (EP)
(indie-rock)

Avreste mai detto che Nigel Chapman potesse essere un estimatore dei Green Day? Noi no, ma a quanto parte il focus di questo divertissment sotto forma di EP del gruppo canadese è proprio l’omaggio al gruppo punk, con la cover del loro celebre brano completamente trasfigurato dal canone che ormai contraddistingue i Nap Eyes: chitarre alla Feelies, ritmi diluiti e psicotici dal piglio pop, voce loureediana dal tono un po’ scazzato. Lo stesso accade per la successiva cover di Bonnie Raitt e il ripescaggio di un brano inedito, ma rimaniamo totalmente attoniti dal finale, con un remix in chiave hyper-pop di un pezzo del loro ultimo disco, con tanto di vocoder. Un episodio tutto sommato trascurabile della loro splendida produzione.
(P.C)


FIGHTMILK – CONTENDER
(indie-rock)

L’unione tra melodie rotonde e voce piena e calda da un lato e chitarre frizzanti dall’altro sembra ormai non interessare quasi più a nessuno, in ambito sia mainstream che indie. I Fighmilk sono una delle poche eccezioni, e da sempre propongono canzoni che mettono una gran voglia di essere cantate e che allo stesso tempo non ammiccano certo al grande pubblico. Questo secondo album prosegue sulla scia del debutto e della raccolta di singoli precedente, e ci sono buone possibilità, visto che state leggendo qui e quindi un po’ di passione, gusto e apertura mentale in campo musicale dovreste averle, che vi ritroverete catturati dalla voce di Lily Rae e dalle sue linee melodiche micidiali, perfettamente valorizzate da un sound che sprizza vitalità da tutti i pori.
(S.B)


CURRENT JOYS – VOYAGER
(art rock, bedroom pop)

Nick Rattigan sforna il suo settimo lavoro con il nome Current Joys ed è, al solito, un lavoro onesto e pulito (forse anche troppo).  Questo Voyager suonerà come un vero ossigeno per gli ex ragazzi indie che vogliono solo qualcosa di emozionante da ascoltare in questi periodi così bui e oscuri. Questo lavoro contiene ottime canzoni (Naked e la struggente Rebecca su tutte) che ci ricorda tantissimo la scuola cantatuoriale dei musicisti maledetti americani, brani che scivolano via con leggerezza e che scuotono dal torpore. Capaci, in un piacevole flusso di liquide chitarre e voce sofferta, di risvegliare anche i cuori più glaciali.

Le due canzoni che abbiamo citato raccontano il ricordo di una felicità perduta. Non solo rose e fiori purtroppo, questo album onestamente troppe canzoni anonime. Delle tracce gettate quasi a caso che non lasciano mai il segno. Scegliete 3/4 canzoni da questo lavoro e non ve ne pentirete.
(G.A)


ALTRE DI B – SDENG!
(indie-dance-rock)

Dopo quattro anni dall’ultimo album, la band bolognese torna più fresca e vitale che mai, vogliosa di raccontare, in queste 10 canzoni, l’atmosfera che si respira nei campi da basket all’aperto in città, partendo già dal titolo, senza dubbio il rumore che si sente più spesso in quei lunghi e meravigliosi pomeriggi di sudore, adrenalina e palloni che sbattono pesantemente sui ferri dei canestri, visto che la tecnica non è certo il principale ingrediente di queste competizioni all’ultimo sangue.

C’è voglia di spaccare il mondo, di esaurire tutte le energie presenti nel proprio corpo, ma anche di godere dell’idea che i propri avversari siano anche e soprattutto amici, e gli Altre Di B traspongono tutto questo nel contenuto musicale del disco, compreso il discorso delle amicizie, dato che in una canzone sono presenti Lo Stato Sociale e in un’altra si omaggiano i My Awesome Mixtape. Certamente, poi le componenti di cui sopra non sono certo presenti solamente nell’ambito cestistico, ma le si ritrova in molti aspetti della vita, per cui il disco ha tutto per piacere anche a chi non sente la spicchia come un prolungamento del proprio corpo, però per chi la ha palla al cesto nel sangue è particolarmente consigliato.
(S.B)


KMRU – LOGUE 
(elettronica, ambient)

Il kenyota di stanza a Berlino Joseph Kamaru ha soli 24 anni, e a 24 anni è già stato paragonato a maestri del calibro di Tim Hecker, ma soprattutto a 24 anni ha fatto un disco, Peel, che ha letteralmente terremotato le produzioni ambient, drone e field-recordings. Gli sono stati già dedicati un paio di profili approfonditi  su riviste internazionali e il Guardian alla fine dell’anno scorso lo ha inserito tra gli artisti più promettenti per il nuovo decennio, anche se in realtà con Peel quelle promesse le ha già mantenute prima ancora di farle.
Logue, appena uscito per Injazero, raccoglie alcune tracce “giovanili,” realizzate nei due o tre anni che hanno preceduto Peel e rappresentano quindi una sorta di prequel: il che significa che è un disco per certi versi acerbo, sperimentale, nel senso che Kamaru in queste tracce “sperimenta” strade e linguaggi per lui nuovi. È interessante notare come sia passato dall’IDM con la quale è cresciuto in Kenya sotto il segno del Nyege Nyege Festival, a musica che più che per ballare come “11” e “Logue,” è pensata e fatta per focalizzare l’ascolto sui particolari come “Jinja Encounters” e “A Meditation of Listening.” Se da un lato si sente un giovane che sta cercando di addomesticare i suoi strumenti, dall’altra si  nota già quella maturità sbocciata appieno l’anno scorso. Questo album può essere sia un’occasione per approfondire la musica di KMRU che un punto d’accesso per entrare nel suo mondo.
(P.L)

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