Le migliori uscite discografiche della settimana | 13 novembre

Settimana di interessanti uscite discografiche. In questo numero vi raccontiamo della ricca compilation – infarcita da ben 7 inediti – di Brian Eno, del ritorno degli AC/DC, degli Zen Circus e dei sempre ottimi bielorussi Molchat-Doma. A seguire prestate attenzione all’album solista dell’ex Red Light Company Richard Frenneaux, all’hip hop di Pink Siifu e Fly Anakin. Capitolo importante per le tante uscite ambient ed elettroniche con Ana Roxanne, Wordcolour, M.Geddes Gengras, Domenique Dumont, Faten Kanaan, Heathered Pearls e Emily A. Sprague. Buona lettura e buon ascolto.

a cura di Giovanni Aragona, Stefano Bartolotta, Patrizia Cantelmo, Chiara Luzi e Paolo Latini

13:21:04  – 13/11/2020



BRIAN ENO – FILM MUSIC 1976 – 2020
(ambient)

Nel corso della sua lunga e prolifica carriera Brian Eno ha creato una moltitudine di universi musicali, ogni volta diversi eppure sempre magnifici. Raccoglierli tutti insieme scegliendo i più vibranti non è una cosa semplice, Eno però ha deciso di regalarci una prima raccolta tematica di colonne sonore per cinema e televisione, Film music 1976 – 2020. I sedici brani, fra cui sette inediti, del disco coprono un enorme lasso temporale in cui troviamo: Prophecy Theme da Dune di David Lynch, Deep Blue Day da Trainspotting di Danny Boyle, Beach Sequence realizzata insieme ai Passegners di Bono che sarà usata da Michelangelo Antonioni in Beyond The Clouds. Pur essendo una raccolta il disco ha una sua perfetta coesione, segue una linea ben tracciata da Eno il cui scopo è quello di condurre l’ascoltatore fra galassie differenti fluttuando di brano in brano.
(C.L)


AC/DC – POWER UP
(Hard Rock)

Se esistesse una app per la creazione di nuove canzoni degli AC/DC probabilmente partorirebbe questo disco. Una band che sembra ferma in un’ istantanea dove il tempo è un concetto relativo: a sentire questo lavoro ci immaginiamo i residuali componenti della line-up classica con Brian Johnson alla voce quasi fossero ancora nel pieno delle loro forze. Fin dai primi pezzi la ricetta è sempre quella: riffoni di chitarra, suoni grezzi, melodie da intonare allo stadio, teste che si muovono e volumi che si alzano di default. Encomiabili anche solo per questo, pur in un lavoro che aggiunge poco al loro percorso.
(P.C)


RICHARD FRENNEAUX – FLUOXETIME DREAMS 
(pop-rock)

Chi se li ricorda i Red Light Company? Spero proprio in diversi, anche perché chi aveva la fortuna di imbattersi nelle loro canzoni, non se le levava dalla testa tanto facilmente, visto che erano proprio fatte per appiccicarsi al cervello, in termini di melodie, timbro vocale, impatto chitarristico e testi. In quel periodo (fine anni Zero) non era un problema parlare di “indie” in presenza di canzoni fatte per essere cantate a squarciagola, ai concerti, alla guida, sotto la doccia, e non c’erano velleità commerciali, ma solo la voglia di cantare e far cantare.Le cose sono andate diversamente in seguito, ma ora il leader dei Red Light Company torna, undici anni e mezzo dopo, con un disco basato proprio su questa attitudine ormai perduta.

E la voglia di cantare la fa venire eccome, questo disco, anche se il sound è ben diverso rispetto a quello dell’ex band: lì, come detto, si puntava sulle chitarre e sull’impatto, qui ci sono tante tastiere e una maggior tranquillità, ma le melodie sono belle, il timbro vocale è ancora carismatico, e insomma, viene davvero voglia di impararle bene queste canzoni, e di cantarle per tante e tante volte. Non c’è nulla per cui gridare al miracolo, ma ottenere un risultato così al giorno d’oggi non era affatto scontato e non va per nulla sottovalutato.
(S.B)


FLY SIIFU’S – PINK SIIFU, FLY ANAKIN
(hip hop)

A pochi mesi dall’uscita di NEGRO, Pink Siifu torna a pubblicare un nuovo lavoro in collaborazione con Fly Anakin. I due arrivano direttamente dalla scena underground del rap, un luogo in cui trovano spazio produzioni audaci e di qualità. In questo mondo sonoro Siifu e Anakin si muovo egregiamente, dando vita a un lavoro dai ritmi fluidi. Fly Siifu’s è il nome di un finto negozio di dischi gestito dai due e attorno a cui gira il concept del disco. I brani che lo compongono sono quelli che sentiamo una volta aperta la porta del negozio e, assieme alle chiacchiere dei due al bancone, ci accompagnano mentre giriamo tra gli scaffali cercando vinili. Il feeling tra i due permea i pezzi morbidi che fluiscono l’uno nell’altro. Forse a questo lavoro manca un po’ di audacia e forza che c’è in NEGRO ma il risultato è godibilissimo.
(C.L)


ZEN CIRCUS – L’ULTIMA CASA ACCOGLIENTE
(pop-rock)

Gli Zen Circus sono stati una band importantissima per la musica italiana e hanno avuto un impatto paragonabile a quello di pochi altri, però è giusto coniugare questi verbi al passato, perché la versione di se stessi che i tre toscani presentano oggi è troppo annacquata e mancante di mordente per essere davvero presa in considerazione. E non si tratta di un discorso di pulizia sonora o di quanto siano elaborati gli arrangiamenti, ma proprio di un impatto che manca, di canzoni che spesso partono anche bene, ma dopo un minuto e mezzo al massimo si sgonfiano e danno la sensazione di trascinarsi senza riuscire a dire più niente. Dispiace, perché è stato stupendo seguire il loro percorso, ma ormai sono tre dischi che questo enorme problema ricorre, e tre indizi fanno una prova.
(S.B)


MOLCHAT DOMA – MONUMENT
(new wave, synth pop)

Continua l’incessante e interessante percorso dei bielorussi Molchat Doma. In questo ‘Monument’ non solo non nascondono le loro influenze, ma – in linea con l’estetica generale dell’etichetta Sacred Bones – fanno un buon lavoro nel rivitalizzare i suoni che compongono il quadro generale della loro base sonora. L’intero album prende vita come l’apertura di una vasta colonna sonora orchestrale elettronica tra post-punk e new wave sinteticissima. Il terzo disco dei ragazzi di Minsk suona bene e il processo di crescita è ormai alle spalle, i Molchat Doma sono diventati abilissimi.
(G.A)


ANA ROXANNE –  BECAUSE OF A FLOWER
(ambient)

Primo album per la californiana di origini filippine Ana Roxanne, che dopo l’eccellente ep ~~~ uscito l’anno scorso per Leaving Records passa alla gloriosa kranky di Chicago, e Beacause of a Flower continua e arricchisce il percorso ormai trentennale di kranky facendo confluire nel suo mondo fatto di ambient eterea le tendenze alla dilatazione presenti nel catalogo (vedi Doldrums, Jessamine, Loscil).

Nelle sette corpose composizioni del disco ci sono tutti gli elementi culturali che definiscono Ana: le sue radici orientali, la sua formazione occidentale, la spiritualità divisa tra cristianesimo e misticismo indiano, tutto in pieno stile dell’eclettismo californicheggiante, sospeso tra concreto e spirituale, mosaico di dualismi già presenti nell’introduttiva “Untitled,” dove la voce di Ana descrive si sdoppia e si moltiplica in un caleidoscopio che imita le permutazioni armoniche. Il resto del disco viaggia tra ambient meditativa (“A Study in Vastness” e “Venus”), tracce che lambiscono la musica cosmica (“- – -“), cut-and-paste “poppeggianti” con rumori e voci trovati (“Camille”) e tanta, tanta ma proprio tanta bellezza condensata in 40 minuti.
(P.L)


WORDCOLOUR – JUNO WAY |EP
(elettronica)

Secondo ep per Nicholas Worall, aka Wordcolour, che dopo gli esperimenti in un cut-and-paste rinnovato di Tell me Something uscito per l’etichetta catalana Leaving Records quest’estate, passa a Houdstooth e rilascia un ep nel quale raffina e affina il suo stile. Qui prendono forma tutte le sue esperienze formative, dal pop alla classica al jazz alla musica per televisione e teatro, e si condensano in tre tracce pensate per il dancefloor ma che sono soprattutto tre tracce da ascoltare con estrema attenzione.

Su “Juno” gioca con i bpm e con tutti i trucchi asmr per realizzare un’elettronica tanto calda quanto creativa, lambendo i territori minimali e downtempo, “Breathless” è un tributo alla tradizione techno britannica e “I Waited for You This Morning” riprende le manipolazioni con i suoni trovati che affollavano il precedente ep e li ricuciono in un contesto che è esattamente a metà strada tra la dance e un’elettronica meditativa.
(P.L)


M. GEDDES GENGRAS –  TIME MAKES NOTHING HAPPEN
(elettronica)

Poche etichette riescono a estendere i confini della musica elettronica come Hausu Mountain, e pochi hanno saputo unire la rinascita della musica per synth con la tradizione del glithc e del noise declinato nel mondo digitale come M. Geddes Gengras, già attivo in molti altri progetti come Sun Araw, Pocahaunted e Akron/Family. Time Makes Nothing Happen è il suo secondo disco per Hausu Mountain, originariamente pubblicato come autoproduzione su Bandcamp, è uno studio sul ritmo e sui bpm e lo possiamo mettere accanto a Workaraound di Beatrice Dillon e File Under Uk Metaplasm di Rian Treanor.

Qui i ritmi sono diseguali, folli, rifiutano di essere addomesticati, spesso sembrano frutto di improvvisazione e talvolta sembrano proprio avere un’intelligenza propria che li rende liberi e anarchici. Pezzi come “Ringo Blop” e “Time is a Marble in a Bucket” sembrano quello che otterresti se dovessi chiedere a un computer di inventare il free-jazz. Copertina come sempre disegnata da Max Allison e come sempre fantastica.
(P.L)


DOMENIQUE DUMONT – PEOPLE ON SUNDAY
(ambient)

Domenique Dumont è un musicista elettronico francese e in Francia ha realizzato due dischi per l’etichetta parigina Antinote (Comme ça e Miniatures de auto), nei quali si muoveva tra un’elettronica dolce e territori quasi lounge. People on Sunday è il suo primo disco per The Leaf Label e è una curiosa colonna sonora: una colonna sonora fatta nel 2020 per un film muto del 1930, conosciuto come Menschen am Sonntag, Les Hommes le Dimanche e per l’appunto People On Sunday, pellicola che i cinefili non faranno fatica a ricordare come opera del cinema tedesco tra le due guerre scritto da Billy Wilder.

Dumont ha già lavorato a colonne sonore di film, ma per questa è stato diverso, e per sua stessa ammissione, vedere oggi un film di quasi un secolo fa, trasforma in surreale un’esperienza che era pensata come estremamente realista. La musica va di pari passo con questa dissonanza cognitiva: “Gone for a Wander,” “Merry Go-Round” e “Everyday Life” sembrano descrivere una quotidianità certo, ma una quotidianità di un altrove che forse non esiste, tra melodie riconoscibili e confortanti e accenti gentilmente ostili.
(P.L)


FATEN KANAAN – A MYTHOLOGY OF CIRCLES
(elettronica)

ll quarto album per la musicista di Brooklyn Faten Kanaan è una meditazione sulla natura e i suoi cicli violentemente indifferenti all’uomo, sembrerebbe azzardato affermare che sia un disco sui cambiamenti climatici, ma quest’anno ambient e elettronica hanno già ampiamente dimostrato di essere gli unici generi musicali a riuscire a descrivere la distopia che stiamo vivendo (vedi Tillman Robinson e Jasmine Guffond). Come nei precedenti album è sempre il synth a legare linee di basso e linee melodiche, ma qui il risultato è molto più a fuoco e meno dispersivo che nei precedenti.

Vengono in mente le composizioni di Brian Eno e Bowie per i secondi lati di “Low” e “Heroes,” ma con un tocco di “cosmico” in più. “The Archer” e “Sleepwalker” sembrano  versioni addolcite di certe elucubrazioni di Klaus Schulze, “Birds of Myrrh” fa incontrare l’ambient più oscura con un tocco di classicismo quasi rinascimentale. La seconda parte del disco, più eterea e confortevole, dà più spazio a melodie nostalgiche e contemplative, come “Erewhon” e “The North Wind.”  Master di Heba Kadry, genio che quest’anno ha lavorato anche con Eartheater Nicholas Jaar e Irisarri.
(P.L)


HEATHERED PEARLS – CAST
(ambient)

Terzo disco per Heathered Pearls, ossia Jacub Alexander, polacco cresciuto nel Michigan e newyorkese d’adozione, Cast è un disco che rappresenta appieno una delle tendenze più diffuse delle produzioni elettroniche nella fase lockdown: il featuring. Quasi ogni traccia di ambient tanto fredda quanto sorprendentemente accogliente contiene qualche sample vocale di qualche amico musicista di Jacub Alexander, come Nick Murphy (Chet Faker) su “Basic Needs,” o Baltra su “What Else Do you Want?” e Terrence Dixon su “Salvaged Copper,” tutte voci al tempo stesso presenti e assenti perché registrate, e forse questa dualità quasi contraddittoria è quello che conferisce al disco il suo fascino quasi inquietante, come se stessimo ascoltando il reperto archeologico di un mondo perduto.

Per il resto la formica resta la stessa: bassi pulsanti, strumentali elettronici dilatati e eterei, alcune tracce di raccordo, come “Utica” e “ASRM/Exhaustion,”  spezzano bene il flusso, preparandoti e invitandoti poi a perderti nei bassi profondi e avvolgenti che sono un po’ l’elemento primario di un disco che non ha nessuna sbavatura.
(P.L)


EMILY A. SPRAGUE – HILL, FLOWER, FOG
(ambient)

Disco registrato all’inizio del lockdown per pandemia, nella prima metà di marzo, pubblicato per un breve periodo su Bandcamp e oggi stampato e distribuito ufficialmente dalla sempre affidabile e lungimirante RVNG Intl, Hill, Flower, Fog è il disco ambient del lato ambient di Emily Sprague, già all’opera nei Florist, poi diventati suo progetto solista con Emily Alone dell’anno scorso.

Quella di Sprague è una creatività schizofrenica, divisa tra i minimalismi ruvidi e grezzi del folk, e quelli più avvolgenti e astratti dell’elettronica analogica e dell’ambient. Hill, Flower, Fog sembra seguire la logica dei precedenti album ambient di Emily Sprague, Water Memory Mount Vision, dedicati il primo a elementi marini e acquatici, il secondo a studi su synth e strumenti a tastiera. Questo nuovo lavoro è diviso in sei meditazioni dedicate tutte in qualche modo all’elemento terreno e bucolico, realizzate con synth dal suono caldo e casalingo e poco altro. Spicca la lunga e ipnotica “Mirror” e dopo i 40 minuti del disco viene da sperare che Emily Sprague si scordi definitivamente della chitarra acustica.
(P.L)


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