La furia dei Fugazi: 30 anni fa il gioiello post-hardcore di ‘Repeater’

 

11:23:19  – 19/04/2020

Fucked up, got ambushed, zipped in

I Fugazi da Washington D.C. nascono nel 1987 per mano di Ian MacKaye (ex Minor Threat ed Embrace) e Guy Picciotto (ex Rites of Spring), chitarra e voce, i quali avevano entrambi già contribuito notevolmente alla scena hardcore locale degli anni ‘80; completano la sezione ritmica di Brendan Canty (batteria) e Joe Lally (basso).

Dopo un paio di epocali EP, nella primavera 1990 esce il loro primo vero e proprio album, Repeater. L’album, è il  capolavoro indiscusso post-hardcore e della filosofia DIY. Il lavoro, verrà pubblicato tra il decennio dei grandi padri putativi dell’alternative e dell’hardcore americano (su tutti Sonic Youth, Minutemen, Dinosaur Jr e Hüsker Dü). Il decennio successivo consacrerà anche tutti i suoi figli illegittimi (Refused, At the Drive In, fino ai recenti Cloud Nothings).

“You are not what you own”: l’apogeo del Post-Hardcore e la filosofia DIY

Poco più di 35 minuti (43 nella versione con allegate le tracce del 7″ 3 Songs) per condensare tutti gli stilemi del grande rock alternativo a stelle e strisce. Un disco politicizzato, o forse sarebbe meglio dire dalla forte impronta sociale, una filosofia e un approccio che faranno dei Fugazi, per molti, la faccia veramente alternativa del rock americano, sempre fedeli e coerenti con la loro immagine “contro”. 

Un album profondamente cerebrale e ricco di sovrastrutture, ma anche diretto. Un lavoro che definire seminale, in questi anni dove spesso si è abusato di questo termine, pare addirittura riduttivo. I Fugazi riescono a trovare un preciso equilibrio tra urla laceranti, chitarre abrasive e anthem feroci (di matrice punk hardcore, anche se qui dilatato, miscelato in un’ottica quasi crossover con i prodromi dei generi di là da venire, non ultimo il miglior emo-core) e approccio intellettuale, pensiero, razionalità post-industriale (post rock alienante stile Slint). 

Ma non mancano scorribande malcelate in campi reggae rock, funk bianco in stile Gang of Four e new wave. Da una parte i lasciti del punk cesellano uno stile crudo e metallico, dall’altra l’approccio cerebrale trasuda dall’elegante e sofisticata tecnica compositiva.

I brani

Si parte subito con due pezzi leggendari: Turnover, che già racchiude tutti gli ingredienti snocciolati in tutto l’album (cantato rabbioso e chitarre violentate la fanno da padrone, fino all’accelerazione, poi subito riportata nei ranghi, del finale), e la titletrack, chitarre sbilenche, ma con un giro di basso martellante a indicarci la via. E poi le doppie voci a rincorrersi e a schernirsi. Capolavoro. Ma, ovviamente, non è finita qui, e la tensione non accenna a calare. 

Merchandise è il brano più fedele ai dettami dell’hardcore anni ’80 tout court, un pugno nello stomaco all’America reaganiana mascherato da inno punk al volgere del decennio (“We owe you nothing, you have no control”), vorticosa e dal ritornello esplosivo, mentre Brendan 1 e una strumentale tutta sezione ritmica tribale e orpelli di chitarre. Se Blueprint, con echi garage addirittura stoogesiani e un ritornello tra i più memorabili del lotto, è appunto quasi cantabile, Sieve-Fisted Find (così come da successiva Two Beats Off) è sorretta da un basso vorticoso che ne innerva la struttura. 

Sono invece le sventagliate di chitarre e i latrati di MacKaye a fare la parte del leone nella potente GreedA sugellare il disco, chiudendo un cerchio ideale con l’iniziale Turnover, gli asfissianti stop & go di Shut the Door (echi dei chicagoani Jesus Lizard), suite ubriaca che alterna cantato dinoccolato e ritornelli dalle chitarre furiose e sbraiti disperati, che chiude il lotto con un lascito di angoscia difficile da scrollarsi di dosso. Nessun brano raggiunge i 5 minuti e solo due superano i 4 minuti: ma ogni brano è una gemma autoconclusiva di un campionario di esecuzioni musicali che si aprono a tantissime riletture e che faranno da spartiacque sì, ma soprattutto da glossario per tutte le band che si approcceranno al genere negli anni a venire. 

Conclusioni 

I Fugazi ci regaleranno altre uscite memorabili durante il decennio (su tutte Red Medicine del 1995); nessun loro disco passerà inosservato, tutti pregni come sono di una qualità e purezza d’intenti rara. Ma Repeater in questi 3 decenni è rimasto irraggiungibile non solo per i Fugazi stessi, ma per tutti i loro adepti degli anni a venire.

Per l’evoluzione del genere, ho seri dubbi che da qui in avanti qualcuno possa pensare di realizzare un capolavoro simile. Uno degli album fondamentali e più rivoluzionari della storia del rock.

Nicolas Merli 

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