I Jesus and Mary Chain si sono esibiti domenica 12 dicembre all’Alcatraz di Milano davanti ad un pubblico gremito. Il nostro report.
09:59:57 – 14/12/2021
credit photo: Maggi (Infinite Jest)
L’esperienza milanese dei Jesus and Mary Chain
La Teoria del Piacere ha come fulcro l’attesa. Attendere, rende il momento più dolce, più eccitante e più godibile. Potrebbe essere questo il manifesto che ha contraddistinto i due anni che ci hanno separato da questo evento. Procrastinato più volte, a causa del Covid, domenica 12 dicembre 2021 i Jesus and Mary Chain hanno finalmente varcato il suolo italiano e lo hanno fatto all’Alcatraz di Milano, tornato, finalmente, ai fasti di un tempo.
A sostegno dei fratelli Reid gli interessantissimi Rev Magnetic. La band oscilla tra shoegaze, post-punk e un fluttuante dream pop e, tra fluidi lisergici di chitarre infuocate, violini impazziti, il set scivola via in una piacevolissima mezz’ora. Alle 21:20 giunge il momento dei Jesus and Mary Chain. La band entra sul palco fagocitata da una totale oscurità che avvolge il gruppo in un vortice di luci soffuse e caldi applausi.
Il concerto è intelaiato da due nutritissimi set. Nel primo, a dominare la scena è l’iconico secondo album della band, Darklands, nel secondo, il setlist verrà totalmente invaso da nostalgia e ricordi. La sensazione, per chi scrive, è quella di aver assistito ad un conturbante viaggio mentale, guidato dal potente motore sonoro messo in piedi dai Jesus and Mary Chain.
Amplessi distorti
Non ci sono applausi o canti eccessivi. Forse questo è un codice comportamentale per i fan di vecchia data. Molti dei presenti hanno (vista l’età) vissuto una storia di amore intensissimo con il gruppo. William Reid, vive il suo amplesso con la sua Gibson ES-335 con un’intensità d’altri tempi mentre Jim Reid suona per molti tratti offrendo le spalle al suo pubblico.
Il suono è impeccabile, ben equilibrato. Possiamo distinguere chiaramente tutti gli strumenti: spiccano i riff e gli assoli di William, rimasti fedeli a ciò che abbiamo sempre conosciuto e alla fine apprezzato nella loro semplicità mai banale. La voce di Jim Reid, che non ha mai spiccato in forza, ha mantenuto la sua nitidezza nonostante gli anni trascorsi. Dopo una breve pausa di cinque minuti, i musicisti tornano sul palco per il secondo set. Tutte le canzoni di Darklands suonano come una lettera d’amore sonora ai Velvet Underground e alle influenze rock ‘n’ roll che hanno alimentato il loro concetto.
Mentre lo spettacolo continua, il livello di rumore bianco cresce. Impreziosito da occasionali spruzzi di feedback di chitarra, Kill Surf City elargisce ondate di distorsione e fuzz sugli ascoltatori eccitati. Scott Von Ryper e William Reid costruiscono un portale sonoro capace di condurre velocemente nel passato per poi catapultarsi in un futuro distorto fatto fi progresso e regressione, cromatismi e oscurità. Ed è proprio in quel mondo “distorto”, si possono cogliere i riferimenti musicali e culturali di Velvet Underground e Psychedelic Furs.
Il finale
Come previsto, la band cesella il finale ad effetto. Per tanti Just Like Honey, è semplicemente Lost in Translation di Sofia Coppola, per tanti è commozione. La chiusura è affidata Never Understand, capace di offrire nuovamente ossigeno alle anime oscure assetate di rumore. Ai fratelli Reid ha sempre interessato quel piacevole stato di disorientamento percettivo e cognitivo che coglie l’ascoltatore. Per i JAMC il mistero è come una calamita e l’esplosivo feedback di chitarre resterà sempre quel medium capace di ricercarlo. Usciamo dall’Alcatraz, felici, e con quel ronzante feedback incastrato in una parte non precisa del nostro corpo.