Imparare a planare sul dolore: “Blue” di Joni Mitchell

Blue è il quarto album della cantautrice canadese Joni Mitchell, pubblicato nel giugno del 1971 dalla Reprise Records.

09:35:54  – 22/06/2021


 

Isola di Wight, estate 1970: sul palco una splendida Joni Mitchell si aggrappa con forza alle note del suo piano, mentre la folla di fronte a lei rumoreggia distratta. Sembra non prestarle la minima attenzione, mentre lei mette in scena se stessa e la sua musica, mai così nuda, di fronte a un mondo che le appare in quel preciso istante ostile e straniero.

La forza che le dà quel gesto, le dita che scorrono sui tasti del pianoforte, il suo rifugio personale per esorcizzare la fragilità, le note che escono flebili ma potenti sono tutto ciò che serve a lei per opporsi a quel crollo emotivo che sta per travolgerla, e a noi per capire il disco che da molti è considerato il suo capolavoro, Blue.

Una dolce malinconia

Blue simbolicamente è il colore cui è virata la foto che campeggia nella copertina del disco, ma anche la parola inglese con cui si definisce quel sentimento di dolce malinconia in cui ci si rifugia per sciacquare via il dolore, nel tentativo di non lasciarsi travolgere. Un disco particolare, il quarto della cantautrice canadese, a cui la Mitchell arriva dopo svariate peripezie emotive personali alle quali non riesce ad opporre un argine se non mettendole in musica. È un disco in cui più di ogni suo altro, lo sguardo è essenzialmente spostato su di sé, talmente diretto da farle dire qualche decennio dopo “I’ll never be that pure again”.

Il Blue di Joni Mitchell, musica come luogo dell’anima

Ed è considerato il suo capolavoro proprio per quella capacità di elevare la musica al suo naturale ruolo di “forma d’arte”.  Il luogo nel quale la spiritualità poteva – e può ancora oggi – trovare espressione senza il rischio di essere considerata fuori luogo o folle. In quegli anni, questo genere di espressione artistica era ancora capace di catalizzare masse di giovani, isola felice dove la sensibilità e la vulnerabilità potevano stare al centro di tutto. E se l’arte è l’esatto opposto dell’intrattenimento, che ha a che fare con la distrazione, Blue di Joni Mitchell è un capolavoro perché prevede d’immergersi totalmente nell’esistenza umana, nell’incertezza e nella fragilità, materia di cui è fatta la vita.

Laurel Canyon e la West Coast

Joni Mitchell ci arriva quando è già una delle più affermate voci femminili della scena folk americana, esponente di spicco della musica della west coast, con all’attivo tre dischi di successo (in particolare, il terzo “Ladies of the Canyon” è quasi già un classico) e svariate
collaborazioni disseminate nella sua terra d’adozione, la California di Laurel Canyon e i legami con artisti come Neil Young, David Crosby, Graham Nash e James Taylor. I due anni che precedono la pubblicazione di Blue sono particolarmente tumultuosi, fra relazioni intense e distacchi dolorosi ma necessari, che la portano a vivere un’altalena di situazioni e sentimenti, tanto intensi quanto devastanti.

Dipingere con le parole

E’ passato un anno da quell’immagina all’ Isola di Wight ed esattamente allo stesso modo la Mitchell si aggrappa alle note – mai così sublimi – della sua musica, attingendo oltre ai tasti del piano, alle quattro corde del dulcimer degli Appalachi, strumento tradizionale
americano funzionale ai saliscendi emotivi che vengono tratteggiati nel disco.

Questi due strumenti – che sono essenzialmente i due cardini sonori su cui si dipana l’album, oltre a qualche comparsa chitarristica (come per James Taylor in “A Case Of You”) e alle percussioni di Russ Kunkel – sembrano riflettere le variazioni dell’altra grande protagonista del disco, la cristallina voce dell’autrice canadese. Mentre il pianoforte assume tinte a tratti drammatiche e più profonde, il dulcimer sembra quasi planare e colorare di mille sfumature cromatiche, più leggiadre, l’opera – esattamente come riesce a fare la splendida, sublime voce da contralto della Mitchell. Le parole sembrano davvero prendere una vita cromatica, pittorica attraverso la corde vocali della “Lonely Painter” canadese, tanto da comunicare le emozioni senza nemmeno doverle codificare attraverso i testi.

Un folk “confessionale”

Testi che rimangono l’altro fulcro del disco, pilastro del cosiddetto “folk confessionale”: una definizione che se da un lato appare a fuoco, dall’altro rischia di confinare il genere in qualcosa di scarno, confidenziale, intimo e null’altro. Blue è molto di più: musicalmente
può apparire semplice, ma non lo è affatto.

Gioca sui contrasti, su chiaroscuri più marcati e su uno stile pianistico che anticipa quello che verrà dopo, quando l’autrice sposerà uno stile dalle venature più jazzistiche e contaminate con altri generi, mentre il suono è già più moderno e spigoloso di quello dei precedenti lavori.

Un fiume su cui scivolare via

Le liriche raccontano dell’ambivalenza dei sentimenti, della necessità di perdersi in mille divagazioni inaspettate – il viaggio dell’autrice in Europa, fra la Grecia, Creta e la Spagna a prendere le distanze dalla sua identità imprigionata negli sguardi, nei legami, nelle
abitudini di casa, in cerca di strade dove sperimentare la solitudine di chi si ritrova straniera fra stranieri.

Un viaggio metaforico per rimescolare le carte e sentire la nostalgia di casa (“California, I’m coming home”), ritrovare il sorriso in un’isola greca consapevole che sarebbe tutto finito, di appartenere già a un altro mondo. È il regalo che Joni Mitchell si fa e ci fa per celebrare l’amore sotto ogni sua forma, per ricordarci quanto certi spiriti liberi per non perdere quell’equilibrio precario che il destino gli ha assegnato, abbiano bisogno di una via di fuga, di un fiume ghiacciato durante un qualsiasi malinconico Natale su cui scivolare via.

I wish a had a river/ i could skate away on
I wish I had a river so long/ I would teach my feet to fly

E in certi, straordinari casi, quel fiume assume le forme di un disco, capace di farti planare sul dolore, mollare le zavorre e staccarti finalmente da terra per continuare – nonostante tutto – a spiccare meravigliosi voli leggerissimi.

Patrizia Cantelmo

LEGGI ANCHE ——-> Il 19 luglio del 1974 l’anima di Neil Young trova la sua pace in una spiaggia deserta

LEGGI ANCHE ——-> Velvet Underground and Nico, il monolite nero del rock’n’roll

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *