Il ritorno, il nuovo disco e i progetti futuri. Intervista ai Cabaret du Ciel

Sono tornati con un nuovo album ad inizio anno i Cabaret Du Ciel, ossia i trevigiani Gian Luigi Morosin e Andrea Desiderà. La band, seminale per la scena elettronica italiana, ha reso disponibile il nuovo lavoro intitolato Breath of Infinity, pubblicato dalla nuova etichetta fiorentina Quindi Records. Abbiamo scambiato quatto chiacchiere con il duo. 

10:02:50  – 01/02/2021


 

Un piacere conoscervi e che bello commentare insieme a voi il ritorno di una seminale band come i Cabaret du Ciel. Partiamo da lontano e raccontatemi i primi passi del vostro progetto.

Andrea: Da metà degli anni ’90 ci eravamo persi. Il progetto nasce da Gianluigi e successivamente mi sono unito anch’io. Io provengo dalla new wave e sono un bassista, nel 1988 a Treviso ho conosciuto Gianluigi che già lavorava a trame ambientali. Lui è un grande musicofilo e all’epoca lavorava in un negozio di dischi. Nel tempo siamo diventati grandi amici e la nostra prerogativa è sempre stata questa: trovarsi bene umanamente. 

Nel corso degli anni ho avuto modo di ascoltare molti vostri lavori. L’importanza dei Cabaret du Ciel all’interno del seminato sperimentale è fondamentale. Come è cambiato il vostro sound nel corso degli anni? 

Gianluigi: Oggi c’è tanta tecnologia a portata di mano. Noi rimaniamo degli artigiani del suono, ci mettiamo li in maniera meticolosa a costruire le nostre trame sonore. All’epoca si registrava sul quattro traccia a cassetta (e di recente ho scovato tanto vecchio materiale) e oggi le cose sono radicalmente cambiate. Noi non siamo dei grandi esperti “nel manomettere suoni”. Ci siamo affidati ad un grande professionista  come Giorgio Ricci che ha curato ogni dettaglio di questo disco e ne ha smussato ogni angolatura e affinato ogni sfumatura. 

Parliamo del grande Giorgio Ricci dei Temple Beat, seminali nei primi anni ’90 e maestri del tecno punk. Mi viene spontaneo chiedervi dell’incontro con il grande producer tedesco Peter Wustmann.

A: Con Peter il rapporto nacque grazie al negozio di dischi in cui lavoravo. Riuscimmo ad inviare il materiale e in quel periodo si unì a noi Silvia Marton, già parte dei Templebeat. Definimmo l’accordo e ingaggiammo una band al seguito.  Il disco era Blue Forms che sicuramente è un lavoro che pecca di ingenuità. In sostanza quel disco è un tentativo di fare cose nuove ed esplorare nuovi orizzonti sonori. Eravamo passati da un periodo di esperimenti sonori e di concerti in cui mescolavamo l’arte del cinema, la sua visionarietà, musica suggestiva, ad essere una vera band con una voce stabile.

 

Quale nesso tra le vostre tessiture sonore e il mondo visionario del cinema? Il nuovo disco sembra un viaggio electro-surrealista.

G: Tanto, pensa che inizialmente legavamo i nostri suoni a delle diapositive e la nostra idea di musica parte da li. Il nesso è alto ed è giusta la tua osservazione. Dopo Blue Forms ci siamo persi e sono trascorsi molti anni. L’avvento di Internet ci ha rimesso in gioco e molto nostro materiale anche datato nei primi ’90 è riaffiorato. Siamo stati contattati da un’etichetta francese originaria di Lione interessata al disco Skies In the Mirror del 1992. Il disco è stato ripescato dopo migliaia di visualizzazioni e ascolti provenienti da YouTube. La nostra voglia è partita da li e oggi siamo tornati. 

Andiamo ai giorni nostri. Nuovo disco e collaborazione con questa nuova – e interessante – etichetta fiorentina Quindi Records. Come nasce la vostra collaborazione?

A: Il sodalizio nasce grande ai social. Siamo stati contattati da questa nuova etichetta e all’inizio temporeggiavamo. Alla fine abbiamo instaurato un bel legame con Niccolò Rufus e dopo poco tempo è piombata la terribile pandemia. Per ovvie ragioni c’era poca o nulla possibilità di vedersi. Inizialmente pensavamo fosse un momento sbagliato ma alla fine si è rivelata una mossa azzeccata.

G: Ognuno di noi ha inviato le nostre composizioni e ci siamo accorti che il nostro lavoro stava spingendo verso un obiettivo comune: quello di realizzare un disco alla Cabaret du Ciel. Inoltre ti diciamo: è la prima volta che lavoriamo così sinergicamente con un produttore. Niccolò si destreggia molto bene in questo mondo e anche la differenza anagrafica tra noi e lui ha giovato tanto. Noi siamo figli di un’altra generazione (ridiamo).  

Un disco capace di inserire tutti i linguaggi dell’elettronica: dall’ambient alla new age, all’Idm e al synth pop. Siete soddisfatti? 

G: Grazie mille, ci pensavamo sai? In fase di mastering abbiamo sempre lavorato affinché il suono migliorasse. Siamo contenti di una cosa: Questo disco suona precisamente come volevamo, e non parlo di qualità ma di alchimia e di affinità tra noi.  Quando parlo di noi inglobo anche il lavoro di Quindi Records e di Giorgio Ricci. L’armonia creata è perfettamente riproposta in questo nostro disco.  

Cosa è cambiato rispetto al passato nella produzione e nella comunicazione di un disco in epoca così iper social e digitalizzata? 

A: Sono mondi diversi rispetto ai nostri anni ’80. Io non ti nascondo che apprezzo molto di più questa epoca e tutti gli strumenti di cui possiamo oggi disporre. Negli anni ’80 era impensabile: manipolavamo i nastri e l’unico supporto comunicativo erano le poche fanzine mensili. A quel mondo siamo particolarmente legati ma oggi è decisamente meglio.

In passato sperimentavamo di più cercando di rendere possibile l’impossibile avendo pochi strumenti, oggi c’è anche troppo, troppi software e anche troppa musica. Alla fine i problemi sono gli stessi rispetto al passato, sai? Se hai quella sensibilità giusta nel fare musica, quell’animo spiccato capace di comunicare, emergi. Se manca quello puoi avere tutti gli strumenti, la promozione, l’apporto dei social, ma resterà sempre difficile emergere. Il nostro tempo libero lo dedichiamo maggiormente ad esser musicisti piuttosto che ad essere ascoltatori e oggi crediamo che la realtà stia sfuggendo di mano e sembra che ci siano più fruitori che artigiani del suono. 

Sono in totale accordo. Oggi si dice che si ascolta molta musica e le piattaforme sono servite sotto i nostri palati ogni giorno, basta un click. Ma se riflettiamo bene oggi si fagocita troppa musica e si rischia sempre una brutta indigestione. 

G: Esattamente, hai centrato bene il focus della questione. Oggi c’è troppa proposta ed è anche difficile individuare ciò che è interessante. Il problema è che sia i testi che le musiche oggi si rassomigliano tutti. La prova tangibile avviene in un normale giro in un supermercato: il tempo della spesa equivale ad ascoltare un pop tutto simile. Ai nostri tempi anche la proposta leggera era molto differente, pensa a gente come Ivan Graziani e Alan Sorrenti. 

Però il web è anche un labirinto all’interno del quale è possibile perdersi o ritrovarsi. Per fortuna abbiamo una grande scelta e le proposte interessanti esistono e i Cabaret du Ciel ne sono esempio e questo disco suona molta “internazionale”. Un disco che necessita anche di essere suonato dal vivo, come si fa in questi periodi?

A: Ne siamo molto felici di ciò che dici. Avevamo già proposte per marzo seguendo tutte le rigide regole imposte dai DPCM. Speriamo innanzitutto che il coronavirus venga presto debellato. Il nostro augurio è che tutta l’industria musicale possa risollevarsi presto. Quello che manca è il confronto con chi ci ascolta e con chi assiste ad una nostra performance.

Il piacere più grande è quello della condivisione. Il disco lo fai e lo ascolti, un concerto è per noi fondamentale. Un concerto non è solo musica, è un insieme di emozioni che si susseguono l’una dopo l’altra e che contribuiscono a renderlo un evento che rimane impresso nella memoria di chi lo vive. Speriamo quindi di poterci vedere presto. 

G.A

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