27/03/2025
Robert smith cure Marilyn manson - www.infinite-jest.it

photo: Smith (Joe Bielawa) Manson (Andreas Lawen, Fotandi)

Tra le notizie più importanti di questo novembre, annoveriamo il ritorno di due realtà dall'estetica ben definita: Cure e Marilyn Manson.

Tra le notizie più importanti di questo lunghissimo novembre, possiamo annoverare il ritorno di due realtà dall’estetica ben definita, al punto da essere diventati nel tempo un fenomeno di costume: ci riferiamo ai mitologici Cure e al redivivo Marilyn Manson.  Non è intenzione di chi scrive provare a mettere a confronto le due band sul piano dell’impatto culturale: essi hanno un universo di fan già consolidato ed eterogeneo e, nel caso dei Cure in particolare, educato a (ri)sentire brani ormai scolpiti nel tempo; le rispettive ultime fatiche, ormai ampiamente assimilate in diversi ascolti, tuttavia, ci consentono di azzardare un parallelismo audace.

È necessaria una riflessione sui personaggi e sulle persone, sulla Forma e sull’ Essere, sulle maschere della cultura pop che tornano periodicamente a riempire con sottofondi musicali i nostri momenti. Non si è mai abbastanza vecchi per evitarlo.


IL PETER PAN DEI GOTH AL BIVIO

Dopo l’ascolto del singolo Alone, pensavamo a un ritorno promettente da parte di Robert Smith e soci. Come la recensione entusiasta pubblicata nelle scorse settimane, le attese non sono state smentite. A sedici anni dall’ultima registrazione in studio, gli appassionati dei Cure hanno ascoltato un disco degno della loro fama; qualcosa che forse non accadeva dal sottovalutato Bloodflowers, la migliore testimonianza dell’espressività del loro lavoro nel XXI Secolo.

 

Il fatto che Songs of a Lost World entri dalla porta principale dell’universo dei Cure è una notizia consolatoria, considerando almeno due utili questioni:

La prima

Le ultime opere registrate dai britannici prima di Songs of a Lost World – salvo pochi spunti – avevano mostrato il fianco alle critiche. Il Self-titled (2004) e 4:13 Dream(2008) lasciavano trasparire una band infiacchita, che sembrava incapace di rinnovare la propria formula e che non reggeva nemmeno più il passo dei suoi epigoni. Dopo i relativi ascolti, rimanemmo con qualche singalong fra le mani, la cui utilità valeva giusto per una nuova tournée. Ed era pur sempre dei Cure che stavamo parlando.

La seconda 

Le tematiche esistenziali affrontate in questo disco, introdotte dagli articoli promozionali, lasciavano presagire una sorta di ultimo ballo, condito da note intime e particolarmente sofferte. Il disco avrebbe trafitto doppiamente, ma nel modo sbagliato, in caso di fiasco. Invece, eccoci qui trovati a commentare – in un articolo che (diciamolo a chiare lettere) non vuole essere una recensione, ma semmai integrare a quanto già analizzato una visione globale del fenomeno – un nuovo inno celebrativo della propria grandeur.

Hanno realizzato un’opera che si ciba più di Thanatos che di Eros e che, forse proprio per questo motivo, è stata confezionata in modo credibile da una produzione eccelsa. Songs of a Lost World ci ha trascinati in un viaggio escatologico, tipico dei grandi artisti che – arrivati ad un punto creativo di non ritorno – tirano una linea di demarcazione, e la attraversano.

Camminare, dunque, nella wasteland descritta a parole da Smith, e musicata dai fidi compagni, non risulta agevole, ma si corre seriamente il rischio di arrivare alla fine del percorso con qualcosa in più da dire e da donare al prossimo. Risultato? Primo posto in classifica negli Stati Uniti, per la prima volta in carriera. Non è un’impresa isolata: ricordiamo che un’altra band leggendaria, i Mogwai, ha raggiunto il primo posto in classifica – stavolta in Inghilterra – solo pochi anni fa, per merito del bellissimo As the love continues (2021).

Il caso dei Cure fa sicuramente più parlare, essendo una band più longeva e, senza offendere anima viva, anche più incline all’ascolto nelle radio più comuni. Tuttavia, hanno centrato l’obiettivo solo dopo aver superato la soglia degli ‘anta’. Sono dati che possiamo interpretare nel solco della retromania, ma che premiano anche lavori di indubbia qualità. Bella soddisfazione per Robert Smith, maschera non troppo pirandelliana in cui, solo lui sa come, riescono a coesistere Forma ed Essere. L’eterno ragazzo non si è snaturato, pur evidenziando poeticamente la precarietà della propria avventura. Una maschera per tutte le stagioni artistiche, credibile anche per quella invernale. 

IL RITORNO DEL BABAU

“Coming back/ Coming back baby” intona il Reverendo alla fine del singolo ‘Sacrilegious’. Parole che suonano come una minaccia, proprio come quelle dei celebri spauracchi dei film orrorifici; come Freddy Krueger, che muore solo per brevi intervalli temporali, giusto quella finestra necessaria per produrre il nuovo capitolo. Ed ecco il ritorno del villain Manson. Certi artisti spaventano più per la loro coerenza indomita, che per il loro travestimento.

È il caso di Manson, classe 1969, che proprio non ce la fa a liberarsi della propria estetica. Un perenne ‘ritorno dell’uguale’ che coinvolge anche altri paladini del metal statunitense, come i coevi Slipknot, la cui ostentazione della maschera fisica diventa un vanto, una questione di vita o di morte artistica. Manson non esplicita la cosa negli stessi termini, semplicemente passa dal make-up e sale sul palco (ogni volta, con la stessa attempata androginia). Per inciso: non è una critica, è solo che qualcosa sfugge.

L’album, ‘One Assassination under god pt.1’, esce a quattro anni di distanza dal riuscito ‘We are chaos’. Nel mentre, le accuse di abusi fisici e psicologici da parte dell’ex compagna, l’attrice Evan Rachel Wood, e di altre donne. Senza addentrarci a fondo nella vicenda, che tra l’altro si è conclusa solo di recente (le parti hanno raggiunto un accordo economico e il cantautore ha da poco ritirato l’accusa di diffamazione nei confronti dell’attrice), spendiamo due parole sull’opera.

Il disco vede il rientro, in cabina di produzione, del fido scudiero Tyler Bates, presente anche nei due album antecedenti a ‘We are chaos’. Si tratta dell’ennesimo tentativo di ‘ritorno alla forma’ che non si compie (così come nelle altre collaborazioni con Bates). Si registra un uso smodato del mestiere, nonché il solito simbolismo eretico; le stoccate alla ex compagna sono numerose, molte delle quali assolutamente “telefonate”. Pur essendo un album godibile (è doveroso affermarlo), non aggiunge assolutamente niente alla carriera dei Marilyn Manson. Il punto, tuttavia, non è questo.

Maschere

Il lavoro in questione ha il sapore di un capitolo scritto bene solo per metà, e non perdiamo tempo a spiegarne la ragione; posto che sia Marilyn Manson la maschera di Brian Hugh Warner, e non il contrario, non avrebbe avuto tutto un altro gusto per la vendetta il liberarsene? Come sarebbe stato mostrare, al di là delle esigenze dell’industria, o dei fan più fedeli, il volto – senza trucco e senza inganno – di un individuo processato mediaticamente ed esposto alla berlina da un manipolo di perbenisti seriali? Sarebbe equivalso a mostrare al mondo una verità scomoda, che in pochi avrebbero digerito – innocente o meno.

Perché, signori, la morale amarissima di questa storia alternativa, avrebbe mostrato la “banalità del male” in purezza: in molti, infatti, non hanno esitato a scagliare la pietra e a giudicare il mostro dietro Manson. Warner, dal suo canto, ha ritenuto di mandare avanti l’altro, e di restare schiavo della Forma. Il mondo reale, però, è diverso dai social network: ce lo suggerisce il fatto che l’artista sia sold out da mesi per la data che si terrà a Milano a febbraio. Ma di Brian Warner nemmeno l’ombra, e questo fa pensare. Posto che sia Marilyn Manson la maschera di Brian Hugh Warner, e non il contrario.

Vincenzo Papeo


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