Il 22 agosto del 1994 i Portishead costruirono ‘Dummy’, non un semplice disco ma un’esperienza sensoriale

 

Sul finire degli anni ’80, il rock deve necessariamente fare i conti con la musica dance e con il grunge, genere proveniente da una delle città più piovose al mondo, Seattle. Gli Stati Uniti dominano le scene musicali e la situazione socio-politica, attraverso il post-Reaganesimo, deve fare i conti con un prorompente dilagarsi di droga, criminalità e razzismo. Il rap, nato da una profonda sottocultura, esprime al meglio questa situazione attraverso il sentimento della rabbia, a colpi di rime e ritmi scratchati.

In Europa, la situazione sembra virare su strade differenti. In Inghilterra, il governo Thatcher mette a dura prova la stabilità politica di tutta Europa. Le sue posizioni anti europeiste gelano un continente intero e il popolo inglese, quello dei disadattati e degli emarginati, si ribella. A sud-ovest del paese un collettivo di DJ, riconducibili all’acronimo Wild Bunch, mescola i motivi elettronici a quelli hip hop, dub, techno e house. Il cambiamento socio culturale dell’Inghilterra post Tatcher inizia da Bristol. Un cambiamento innovativo fatto di dialogo interculturale, commistione di generi e mescolanza tra strumentazione analogica e digitale. 

Prima di allora, in pochi conoscevano Bristol. Nessuno aveva mai sentito parlare di Banksy, e soprattutto nessuno nell’ambito musicale pensava fosse possibile mescolare l’hip-hop, il funk, il reggae, il dub, il free-jazz, l’acid-jazz e la musica elettronica. Il meglio che si potesse realizzare in quello spaccato fatto di degrado urbano, industrie, mescolanza di etnie e decadenza prenderà, da lì a breve, il nome di Trip Hop. L’atmosfera è onirica, visionaria, decadente e claustrofobica, ed è in mezzo a questo scenario che si muovono i primi musicisti che danno vita al fenomeno. 3D, Mushroom e Daddy G, Tricky, Smith & Mighty e Nelee Hopper sono i pionieri musicali e culturali che, da lì a poco, avrebbero cambiato – con i Massive Attack – le coordinate temporali della musica britannica (e non solo).

A pochi chilometri da Bristol esiste un paesino di poco più di 20.000 abitanti, si chiama Portishead. La città vive di pesca ed è da sempre un dormitorio della vicina Bristol. In quella città vivono Geoff Barrow (dj elettronico e cultore di vinili), un abilissimo chitarrista di nome Adrian Utley e Beth Gibbons, conosciuta in città per le sue esibizioni canore nei pub della città. Dall’incontro di questi tre ragazzi (poco più che maggiorenni) nascono i Portishead. Il principio su cui si fonda la band è un’ambiente sonoro noir mescolato a ritmiche hip-hop lente e dilatate. Il suono dei Portishead è come un semaforo posto all’interno di una pellicola di David Lynch. Il tempo e lo spazio vengono stravolti in un flusso dilatato di bassi cavernosi, sintetizzatori e giri di chitarra estratti da uno spaghetti western diretto da Sergio Leone.

Una mistura di materiale eterogeneo trascina l’ascoltatore in un viaggio sensoriale ultraterreno. È il 22 agosto del 1994 e nasce il primo disco della band, Dummy. Un lavoro sonoro brillante e capace di raccontare un’esperienza percettiva, dove il suono diviene oggetto di una apprensione sensibile e tangibile. Undici capolavori che vivono di vita propria e che scavano, come pochi esempi nella storia musicale degli anni ’90, nei meandri della psiche umana.

Riverberi che si snodano fino a toccare l’anima. Analogico e digitale che camminano all’unisono in un vortice oscuro. Una voce calda capace di scandire il tempo e lo spazio in un flusso di emozioni e pensieri talvolta intimi, graffianti, animaleschi, in grado di cambiare ritmicità a ogni punto cardine della sinossi del disco. Non esiste una canzone che sia superiore alle altre. Dummy contiene in sé undici profonde e brillanti idee. L’asincronismo dei suoni viene liberamente sostituito da una massa sonora globale, capace di catapultare anima e corpo di chi ascolta in un’altra dimensione temporale. Il linguaggio di Dummy è ricorrente ma, lungi dall’essere puramente una scelta estetica, racchiude una precisa scelta concettuale e filosofica.  

Il mondo di Dummy è un palcoscenico di corpi svuotati, è una sorta di universo parallelo capace di deformare il concetto di tempo e di spazio. In un sound così ben pensato, si nasconde il mistero e l’oscurità. L’esordio dei Portishead rappresenta una corazza che ci protegge dal male oscuro che si nasconde nel quotidiano. Ma questa corazza è anche un velo pronto per essere squarciato da chi vive dall’altra parte. 

Dummy è il miglior viaggio onirico scritto a metà anni ’90. Non bisogna trattarlo come un semplice disco, ma come un’esperienza sensoriale. Nei sogni lottiamo contro quello che realmente siamo, contro i nostri incubi e i nostri desideri. Nei sogni siamo da soli, così come nella vita e nella morte. Dummy è il miglior sogno realizzato dai Portishead e, a distanza di 25 anni, lo sentiamo più nostro. 

G.A

 

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