Il 10 luglio del 2000 atterrava sulla terra l’oscuro e malinconico paracadute dei Coldplay


Oltre che per meriti artistici, molti dischi acquisiscono uno status speciale grazie a un fattore importante all’interno della percezione che ne hanno gli ascoltatori: il tempismo. Non parliamo di arrivare prima o meglio a un traguardo, ma di quella speciale alchimia che si crea in un dato momento storico quando appare un vero campione.

Parachutes è diventato un campione del pop-rock moderno grazie alla clamorosa precisione con la quale si è palesato al mondo. Non ha dovuto sbaragliare chissà quali avversari o proporre una formula di rottura. Ha semplicemente proposto, con disarmante semplicità, ciò di cui gli affezionati del brit-rock avevano disperatamente bisogno dopo aver preso coscienza delle crisi artistiche e non di cui molte band – come Oasis, Blur, Verve, Suede, Pulp e in parte gli stessi Radiohead che si davano per dispersi dopo Ok Computer – avevano dimostrato di soffrire.

Nel biennio 1999-2000, gli esordi di Coldplay, Muse e Doves hanno dato un’enorme speranza al futuro della musica rock britannica. Ma la magia e la qualità dei lavori prodotti da queste band sono durate appena 5 anni. E si può dire che, da allora, la fase di stallo e l’utopia del Revival in cui stagna il brit-rock non si sono mai più trasformati in nuova gioia – ad eccezione del fenomeno Arctic Monkeys.

I Coldplay non hanno mai più suonato come in Parachutes. Non dico che abbiano suonato peggio, perché il disco successivo contiene la loro miglior raccolta di sempre. Ma così timidi, sinceri e crepuscolari – grazie al sottocutaneo effetto lo-fi tipico degli esordi costruiti solo con le proprie forze – no, non lo sono mai più stati. Tante chitarre acustiche, una voce priva di filtri che sembra cantarti di fianco, una produzione mai invasiva e delle intuizioni melodiche che ancora oggi fanno stropicciare gli occhi. Tutti questi fattori costituiscono le qualità migliori di un LP a cui la band avrebbe dovuto guardare come monito prima di fare determinate scelte.

La penna dei quattro giovanotti scorre senza esitazioni, mostrando anche coraggio nel piazzare un’opening track come Don’t Panic. Atipica per quello che sarà il contenuto successivo, così dolcemente perfetta da far temere di procedere nell’ascolto. Ma il seguito del disco rivela una personalità cantautorale con pochi precedenti per un album d’esordio così precoce. La sensibilità del chamber pop lotta per poi abbracciarsi con l’ondata rock degli anni 90, senza mai sembrare acerbo.

Alla fortuna di Parachutes hanno senza dubbio contribuito anche i singoli. Ancora oggi è vivissimo nella memoria il ricordo del video di Yellowtrasmesso da MTV all’interno della programmazione notturna Brand: new. Quella canzone, già dai primi 20 secondi, era forse tutto quello che ognuno di noi aveva sempre sognato di ascoltare: le chitarre elettriche alla “Beetlebum”, l’incedere acustico ritmato alla “Lucky Man” e il falsetto alla “Paranoid Android”. Questo disco apparve come un vero e proprio prodigio perché era eccezionale senza suonare ruffiano ma, sopratutto, perché sembrava essere stato concepito senza alcuna forzatura. Fluido, messo ottimamente a fuoco e conciso.

Carmine Speranza

 


Chris Martin – voce, chitarra acustica, tastiere
Jonathan Mark Buckland – chitarra, pianoforte
Guy Berryman –
basso
William Champion –
batteria, percussioni 

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