I migliori album del 2021 | La nostra classifica

Un 2021 positivo per la musica, meno per la situazione sanitaria ancora pervasa da dubbi e incertezze.  L’umanità, in tempi pandemici, è stravolta a causa di un virus microscopico capace di soverchiare le nostre fragilità. 

In redazione abbiamo consumato come sempre moltissima musica e fare una razionale selezione finale è stato difficile. Abbiamo scelto i migliori album internazionali dell’anno, i cinque migliori album italiani e altri venti dischi che fareste bene a sentire. 

a cura di Giovanni Aragona, Gabriele Marramà, Stefano Bartolotta, Chiara Luzi, Paolo Latini, Patrizia Cantelmo, Gaia Carnevale, Vincenzo Papeo, Nicolas Merli, Enrico Amendola, Matteo Cioni e Flaminia Zacchilli 

13:56:12  – 25/12/2021



1 – ARAB STRAP – AS DAYS GET DARK 
(slowcore, art-rock)

Il gruppo composto da Aidan Moffat e Malcolm Middleton, è tornato insieme dopo una rottura amichevole avvenuta nel 2016 per suonare una serie di spettacoli di reunion. Lo scorso 1 settembre la band è tornata in pista presentando un nuovo brano a distanza di ben 15 anni dall’uscita del loro album del 2005 The Last Romance. Periodo d’oro per la Scozia musicale a margine del clamoroso successo dell’ultimo lavoro dei Mogwai, riecco una band seminale proveniente dall’affascinante stato del Regno Unito.

Gli Arab Strap sono tornati dopo tanto tempo e, ogni pesante senso di aspettativa attorno a questo disco, viene scrollato di dosso sin dal primo accordo. La melodia minacciosa di Malcolm Middleton si snoda intorno al familiare cantato e sussurrato di Aidan, trascinandoci delicatamente ma intenzionalmente di nuovo nell’ovile originario. Questo non è il suono di una band che sta riemergendo nel nostro mondo, ma un invito a fare un passo indietro nel loro universo.

Il meglio del 2021

As Days Get Dark è il meglio che potesse giungere da una band rimasta silenziosa (escluse le scorribande solitarie dei singoli musicisti) per così tanto tempo: arrangiamenti perfetti in trame sonore tra archi, post-rock, slowcore e groove martellanti. A sorprendere, in positivo, è la precisa “messa a fuoco” di questo lavoro: dall’elettronica oscura  di Here Comes Comus! alle trame inquietanti di Sleeper e alla spirituale Another Clockwork Day, tutto è intelligentemente incastrato per far ben “atterrare” l’ascoltatore in 47 minuti destinati alle anime perdute e solitarie.

Il ritorno degli Arab Strap è sbalorditivo, e il fatto che siano tornati in pista così rinnovati e creativi, e più che mai una meraviglia per le nostre orecchie. Tra oscuro, malinconico e onesto, As Days Get Dark è il nostro album del 2021. 


2 – LOW – HEY WHAT
(Alternative rock, experimental rock)

I Low sono una band longeva e prolifica, capace di cambiare pelle diverse volte senza mai tradire la propria essenza. La loro metamorfosi, o evoluzione, è arrivata al punto più estremo nel 2018 con l’uscita del magnifico Double Negative. Questo disco ha condotto la band ad oltrepassare un confine sonoro da cui poi è difficile tornare indietro. L’estrema sperimentazione raggiunta in Double Negative ha inevitabilmente segnato una nuova via che Parker e Sparhawk hanno continuato a percorrere nel nuovo lavoro uscito oggi, Hey What.

Come nel precedente disco anche qui le distorsioni e le manipolazioni digitali vengono modellate con maestria per tessere tappeti sonori intensi. C’è un perfetto bilanciamento tra calma ed esplosioni, ruvidità e dolcezza. In Hey What viene concesso più spazio alla melodia, Days Like These, Don’t Walk Away salvo poi essere di nuovo travolti dalla furia, More. Il duo continua ad esplorare questo nuovo universo astratto, ricco di spunti da cogliere e luoghi da esplorare. Riescono anche questa volta a forgiare il caos tramutandolo in bellezza catartica.


3- BLACK COUNTRY, NEW ROAD – FOR THE FIRST TIME
(post-rock, post-hardcore)

Il miracolo si è compiuto! Nati dalle ceneri dei Nervous Conditions (di cui tra le pieghe nascoste del web si può trovare la demo di quello che avrebbe dovuto essere il loro disco), sciolti dopo accuse di abusi sessuali rivolte al frontman Connor Browne. Peccato perché i Nervous Conditon stavano lavorando con Sua Maestà Brian Eno (che pare si sia detto lusingato che qualcuno suonasse un genere che lui aveva inventato 40 anni dopo). Fortunatamente la bassista del gruppo e bassista anche nei Black Country, New Road, Tyler Hyde, è la figlia di Karl Hyde degli Underworld, e proprio Karl Hyde ha insistito perché il gruppo non si perdesse nel vuoto. Così al nucleo iniziale si aggiungono la pianista May Kershaw e un secondo chitarrista—Luke Mark—e Isaac. Oziando sul generatore casuale di pagine Wikipedia trova per caso il nome Black Country, New Road,  curiosamente adatto per indicare un nuovo cupo inizio.

New Weird Britain

Entrano nel circuito Speedy Underground insieme a altre band via via etichettate come New Weird Britain (Squid, scotti brains, black midi). Da lì ci è voluto veramente poco perché i BCNR diventassero un vero e proprio oggetto di culto. Specie tra gli amanti del post-rock nato con quel miracolo noto col nome di Spiderland degli Slint—qui citati, nel testo di “Science Fair” (‘and fled the stage with the world’s second best Slint tribute act,’ e musicalmente su “Athen’s, France,” che al minuto 1:30 cita verbatim il famoso stacco di “Breadcrumb Trail”). Ma i BLCN non citano solo gli Slint. Nei testi di Isaac, acuti come pochi altri testi sanno essere, si vola sul filo tra ironia e sincerità. Seguendo l’esempio di scrittori come Wallace, e sul confine tra alto e basso, seguendo l’esempio di Vonnegut, e troviamo riferimenti a Charlie XCX, Kanye West, gli amici Jerskin Fendrix e black midi. Altri riferimenti riconducibili anche alle serie tv danesi in sei puntate, la sertralina, Fonzie, Scott Walker e Richard Hell.

Riferimenti e omaggi

I BCNR riconoscono e omaggiano il mondo che li ha partoriti (Slint, June of ‘44 e Jesus Lizard su tutti), e contribuiscono non poco a espandere quel mondo. Il violino di Georgia Ellery (già nei Jockstrap), le tastiere di May Kershaw e il sax di Lewis Evans danno un tocco classico, jazz e klemzer. Forse è anche per questo che nei concerti live al centro del palco ci sono proprio loro tre.

Sei tracce, che eccetto “Track X” superano abbondantemente i cinque minuti. In controtendenza delle imposizioni occulte di Spotify che spinge a fare pezzi corti e commerciali per favorire il sistema pro-rata. Soprattutto sei tracce che mostrano sette talenti fuori dalla norma. Un impasto di post-rock, pop e free-jazz che non sbanda mai e basta sentire i quasi dieci minuti della bellissima e multiforme “Sunglasses.” Mojo li ha già definiti “la miglior band inglese,” e The Quietus “la miglior band del mondo intero.” È divertente, perché è vero.


4- DRY CLEANING – NEW LONG LEG
(alt-rock, post-punk)

Una personale scommessa vinta dalla redazione di Infinite-Jest. Abbiamo puntato fortissimo su questa band nei mesi scorsi e, dopo aver consumato questo album d’esordio, possiamo tranquillamente ritenere vinta la nostra scommessa. Il quartetto britannico dei Dry Cleaning ha estratto dal cilindro il disco perfetto. La band ha esordito nel 2019 pubblicando un doppio EP ed oggi è (con il supporto di 4AD) arrivata la definitiva prova di maturità supportata da John Parish. 

Dieci brani simili a dieci cantici recitati alla perfezione dalla sensualissima voce di Florence Shaw costruiti da conversazioni criptate e accennate capaci di creare trame sonore squisite (Her Hippo, la nostra traccia perfetta). Signori, questa ragazza è probabilmente la miglior sorpresa del 2021: c’è sottigliezza e calore nella sua voce, c’è intenzionalità, forza, delicatezza e ritmo. La simmetria dei brani è perfettamente calcolata da respiri e sorprendenti cambiamenti vocali immersi tra linee di chitarra “vecchia scuola post-punk” e percussioni di batteria simili a meravigliose pennellate metafisiche come in un quadro di De Chirico. Per i più “stagionati” questo disco ricorderà tantissimo le produzioni firmate LTM Records, la storica etichetta post-punk (Tuxedomoon e Ludus) fondata da James Nice. Esordio da applausi.


5- IDLES – CRAWLER
(post-punk)

Lo diciamo senza grandi giri di parole: gli Idles sono la miglior rock band dell’ultimo mezzo decennio, e, dopo aver macinato quattro dischi in altrettanti anni, e aver macinato centinaia di km in lungo e largo in live epocali, rieccoci a parlare di un nuovo lavoro del quintetto inglese. Partiamo dall’ultimo disco, Ultra Mono, e capiamo come il gruppo ha cambiato approccio.

Se Ultra Mono, è stata un’accurata raccolta dei loro capisaldi tematici: dal forte focus sulle tematiche legate al capitalismo sfrenato, alla salute mentale e alle droghe, Crawler è, per certi versi, il disco che non ti aspetti. La band, mescolando sapientemente le lezioni di Bauhaus e Gang of Four, è diventata meno “ostica” e più accessibile ad un pubblico “trasversalmente rock”.

L’album della guarigione

La band ha lavorato ad una marcia diversa in questo disco attraverso una narrazione sorprendentemente pacata e meno aggressiva rispetto al recente passato. Lo stesso frontman della band, Joe Talbot, considera un “crawler” come ciò che è al centro della dipendenza: “qualcuno in ginocchio, qualcuno che prega, qualcuno che sopravvive” attraverso la grinta di esso. Il disco incarna la sopravvivenza, che si tratti di immagini feroci o visioni ad alto tasso umoristico. Quello che emerge è un disco pieno di grandissimi brani, ad iniziare dal primo singolo, “The Beachland Ballroom”.

La canzone, intitolata allo storico locale sul lato est di Cleveland, è l’apice del disco: un’opera d’arte vulnerabile in cui Talbot trascrive un attacco di ansia o una performance esplosiva, a seconda della prospettiva dell’ascoltatore. Se il passato ha raccontato le feroci verità descritte dalla band, CRAWLER è il progetto della guarigione e del recupero. Forse azzardiamo nel considerare questo lavoro come una pietra miliare straordinaria, infestata e risonante per il rock and roll, un disco che non ha paura delle proprie emozioni e della propria apertura, pieno di storie che vale la pena ascoltare più e più  volte. Esageriamo? poco importa.


6- AEON STATION – OBSERVATORY 
(indie-rock)

Potrebbe essere questo il miglior album indie-rock del 2021, e, mentre lo scriviamo, senza accorgerci della mezz’ora già trascorsa, ci accorgiamo di essere giunti quasi alla fine di questo meraviglioso album d’esordio del progetto Aeon Station, creatura messa in piedi da Kevin Whelan. Dopo aver battuto i territori indie degli anni ’90 con i The Wrens, era tanta l’attesa per questo nuovo esordio che ha tanto il sapore di un nuovo inizio. Un disco cui la genesi racconta di un lavoro intelaiato inizialmente con l’amico di vecchia data Charles Bissel, e portato in fondo da Whelan.

Observatory suona molto come un (gran) disco dei Wrens e molte di queste canzoni risalgono a quindici anni fa; altre sono state scritte negli anni successivi, ma il tutto è piacevolmente compatto. Lo spartito dei testi vede il 51 enne Whelan, mettersi a nudo ed esplorare una serie di connessioni e storie: dai suoi ex compagni di band, al defunto padre ai problemi del figlio.

Figlio dei Wrens

Dal punto di vista sonoro, è chiaramente cucito dalla stessa stoffa dei The Wrens: i pianoforti si increspano e gli accordi risuonano con lo stesso equilibrio fatto di intimità e linearità melodica. Le stessi basi che hanno reso “The Meadowlands” un album di culto dei primi ’00.

Nella forma più malinconica possibile, queste canzoni sono commoventi piuttosto che semplicemente (e banalmente) cupe. Questo album è il miglior “racconto di speranza” potesse capitarci in questo dispotico periodo fatto di pandemie, vaccini e furiosi no vax. Godiamoci a pieno questo gioiello che, non a caso, chiude questo particolare anno. Schiacciamo play e abbracciamo la speranza di un futuro migliore, ne abbiamo bisogno.


7– SAULT – NINE 
(black music, R&B, soul)

A sorpresa i Sault hanno estratto dal cilindro un nuovo, accattivante, album. Vi avevamo ben dettagliato nei giorni scorsi di ciò che si stava muovendo in casa Sault. Il collettivo, lo scorso 14 giugno, ha pubblicato una misteriosa foto sui profili ufficiali social. Sfondo nero e un numero 9 a lettere, che annunciava il nuovo album. A distanza di un solo anno dagli ottimi, UNTITLED (Black Is) e UNTITLED (Rise), dai noi nominati tra i migliori album dell’anno, i Sault annunciano un nuovo lavoro. Nine esisterà solo per 99 giorni e quindi non vi resta che divorare questo ennesimo gioiello.

Le trame sonore non si discostano poi di tanto (anzi) rispetto ai lavori precedenti e il suono è sempre corposo e ben compatto. Un viaggio introspettivo all’interno della black music ’70 tra l’hip-hop, l’ R&B old school e il  soul di Philadelphia degno della regina indiscussa Linda Creed. Nine fonde tutti questi genere in un territorio Lounge di meravigliosa brillantezza. London Gangs e 9, le tue pietre preziose di un (ennesimo) ottimo lavoro. Lunga vita al collettivo SAULT.


8 -THE ANTLERS – GREEN TO GOLD
(songwriting)

“Ho volute fare musica per la Domenica mattina” dice Peter Silberman, il leader degli Antlers che tornano dopo sette anni di assenza, e la missione è perfettamente compiuta. Il disco è rilassato, morbido ed emana il calore di un abbraccio; vuole dirci che “andrà tutto bene”, ma senza retorica, né frasi fatte. Silberman ci dice che queste canzoni sono semplicemente il documento di due anni della propria vita, e la trasposizione in musica di questo concetto è la perfetta rappresentazione di come anche la quotidianità può darci tanto benessere, ovviamente se viene vissuta apprezzandone gli aspetti positivi, e non come una costrizione, come probabilmente a molti di noi sta accadendo.

Un disco così, con questa delicatezza che discende in modo così diretto da una rilassatezza emotiva che fino a un anno fa era normale, ma ora non lo è più, può non solo e non tanto ricordarci cosa stiamo perdendo, ma anche e soprattutto aiutarci a riconnetterci con quella sfera così basilare per ogni essere umano.


9 – MOGWAI – AS THE LOVE CONTINUES
(post-rock)

Come festeggiare al meglio i venticinque anni di carriera e il contestuale raggiungimento dei dieci album? confezionando il capolavoro che prende il nome di As The Love ContinuesIn questo nuova scorribanda i Mogwai portano il disco in una direzione leggermente  diversa rispetto al loro recente passato fatto di colonne sonore, calciatori e serie televisive. Nella prima parte il suono è molto più digitalizzato (Fuck Off Money) con sintetizzatori in primo piano che rendono questo brano uno dei tagli più interessanti del disco.

Ma i Mogwai dimostrano di non aver rivali quando indossano le chitarre sgangherate e i tamburi pesanti combinando melodie, sogni a occhi aperti e sfrecciate post rock (Ritchie Sacramento è una delle canzoni più belle di una carriera). I Mogwai sono riusciti a scrivere l’album dal suono più tipico dei “Mogwai”, pur rimanendo fresco, eccitante, attuale e terribilmente originale. 

Dal primo accordo, è tangibile avvertir la forza e la decisione di un lavoro perfetto. Se sommiamo questa premessa al ritorno dello storico produttore Dave Fridmann, il gioco è fatto. I Mogwai sono diventati pienamente maturi facendo quello che vogliono (Drive The Nail ne è la conferma) e questo elemento è da 25 anni il punto di forza. Che questo idillio possa continuare ancora a lungo.


10 – LITTLE SIMZ – SOMETIMES I MIGHT BE INTROVERT 
(hip hop, neo-soul)

Una piacevole sensazione pervade l’ascolto di questo album: dai primissimi accordi ci rendiamo immediatamente conto di ascoltare qualcosa che supera l’innovativo, ed è subito un primo, fondamentale, tassello. Dalla “cavalcante” fanfara di apertura, ci si rende conto di ascoltare qualcosa di realmente importante. Questo album è assolutamente l’ operamagnum di Little Simz – è sconvolgente oltre ciò che è venuto prima, un’impresa non facile considerando che il suo debutto è uno dei più venerati degli ultimi anni.

Mette in mostra un’affascinante capacità: raccontare il lavoro di una personalità introversa e rivoluzionare un genere troppo statico negli ultimi anni.  Il disco piace appunto per la sua varietà: l’inaspettato synth ’80 di “Protect My Energy” ci regala il talento a tutto tondo di Simz così elevato che, nonostante 4 album e appena 26 anni, è già la regina di un genere. Chapeau.


Dal numero 11 al 30

11- BLACK MIDI – CAVALCADE (math rock, art rock, experimental rock)

12- LEON VYNEHALL – RARE, FOREVER (elettronica, IDM)

13- BEAUTIFY JUNKYARDS – COSMORAMA (psych folk)

14- SMALL BLACK – CHEAP DREAMS (dream-pop, chillwave)

15- SONS OF KEMET – BLACK TO THE FUTURE (jazz)

16- FLOATING POINTS – PROMISES (progressive electronic, post-minimalism)

17- TYLER, THE CREATOR – CALL ME IF YOU GET LOST (hip hop)

18- VIAGRA BOYS – WELFARE JAZZ  (art-punk)

19- SQUID – BRIGHT GREEN FILD  (art-punk)

20- ELBOW – FLYING DREAM 1 (art rock)

21- DEAD BANDIT – FROM THE BASEMENT  (elettronica – post-rock)

22- EMMA RUTH RUNDLE – ENGINE OF HELL  (indie-folk, Singer-Songwriter)

23- DEAFHEAVEN – INFINITE GRANITE (post metal)

24- AROOJ AFTABVULTURE PRINCE  (indie-pop)

25- ELORI SAXLTHE BLUE OF DISTANCE  (ambient)

26- ORCHESTRE TOUT POISSANT MARCHEL DUCHAMP – WE’RE OK… (avant-jazz)

27- THE ANCHORESS – THE ART OF LOSING  (songwriting, pop-rock)

28- LINGUA IGNOTA – SINNER GET READY (gothic, industrial)

29- GROUPERSHADE (ambient, ambient-pop)

30- JULIEN BAKER – LITTLE OBLIVIONS (songwriter, sadcore)


I MIGLIORI ALBUM ITALIANI DEL 2021


1– IOSONOUNCANE – IRA
(avantgarde – experimental)

17 canzoni per 109 minuti di durata e un numero pressoché infinito di soluzioni sotto ogni punto di vista: vocale, ritmico, di intensità sonora, di saturazione, di struttura degli arrangiamenti, e così via. Non si vedeva una cosa del genere in Italia dai tempi di wow, e In realtà Iosonouncane si spinge anche al di là dei Verdena in termini di varietà e audacia, dato che non si lega ad alcuna formula tipica di alcun genere musicale, mentre il trio bergamasco è comunque un gruppo rock. La cosa bella di questo lavoro, però, è che non suona per nulla pretenzioso e non pretende di essere ascoltato col massimo dell’attenzione: certamente, se lo si fa, si possono cogliere più sfumature, ma se lo si mette su facendo altro, è in grado di colpire e coinvolgere comunque.

A suo modo, è un disco leggero e conciso, nel senso che ogni singolo momento è in grado di star su da solo, e non va necessariamente legato all’ampio contesto di cui fa parte, anche se, appunto, se lo si fa si ha una visione più compiuta.

Il meglio del 2021 italiano

Un lavoro più che mai per il tempo che stiamo vivendo, nel quale in molti cercano stimoli nuovi dal punto di vista dell’ascolto, ma non vogliono, o non hanno modo e tempo di, concentrarsi al massimo su di esso: questo disco è per loro, e, diciamolo, rende contenti anche noi che spesso riusciamo a immergerci nella musica che ascoltiamo. È un disco che non lascia indifferenti, ma soprattutto, che unisce i vari tipi di ascoltatori, e magari non è una cosa a cui si pensa normalmente, ma è importante.


2- A MINOR PLACE – IT’LL END IN SMILE 
(shoegaze, indie pop)

Un ritorno importante quello dei teramani A Minor Place, progetto di Andrea Marramà, musicista attivo nella scena locale abruzzese fin da metà degli anni ’80, come bassista in diverse band con cui ha inciso alcuni dischi (Le Bateau Ivre, Swollencheek, Delawater). Una decina di anni fa si mette in proprio cantando e suonando la chitarra, coinvolgendo la moglie Roberta al basso. Allo zoccolo duro formato dai due poi si aggiungono volta per volta amici musicisti della scena teramana.

Ha inciso dischi in diversi formati, dalle cassette al cofanetto di 45 giri, tutto all’insegna del Do It Yourself, curando ogni fase, dalla registrazione alla spedizione. In questo interessante nuovo lavoro il duo prende in prestito – con garbo – un sound electrogaze, condensato da un raffinatissimo e cristallino synth-pop di pregevole fattura.

Delicate tele sonore

Tra sussurri e tessiture analogiche gorgheggiate, tra bassi fibrosi e chitarre delicate, la “tela sonora” si fonda su di un climax fatto di mondi sognanti e affascinanti, che hanno tanto il sapore sbiadito di una pellicola di Wes Anderson. Spicca “Sunglasses” – epocale ma statica, e al contempo moderna perché tratteggiata da svariati colori –  perfetto equilibrio di tutti gli elementi in gioco. La soluzione migliore per trascorrere una piacevole ora in periodi distopici come questi.


3- STUDIO MURENA – STUDIO MURENA
(hip-hop, fusion)

Dopo aver pubblicato un disco strumentale nel 2018, lo Studio Murena ha accolto tra le proprie fila l’MC Carma e ha impostato un ampio percorso volto a incorporare l’elemento hip hop nella fusion a cui erano dediti fino a quel momento. Una serie di live a Milano e (soprattutto) dintorni, la pubblicazione di diversi singoli nel 2020, che hanno attirato l’attenzione, tra gli altri, di Alessio Bertallot, e ora ecco il disco, nel quale tutte le promesse vengono mantenute e che propone qualcosa di davvero originale, interessante e coinvolgente.

È letteralmente impossibile non farsi trasportare da queste canzoni, grazie al perfetto connubio tra musica, vocalità e testi, che fa battere il cuore all’impazzata negli episodi più grintosi e lo fa quasi fermare in quelli più introspettivi. Anche se non siete amanti di uno dei due generi di riferimento, o anche di nessuno dei due, il consiglio è di ascoltare un lavoro che non può lasciare indifferenti.


4 – COSMO – LA TERZA ESTATE DELL’AMORE 
(electro-pop)

Da quando si è tolto quell’appiccicosa e fastidiosa etichetta da “indie italiano” Cosmo è definitamente diventato uno degli elementi di punta della musica italiana. A distanza di tre anni da Cosmotronic l’artista confeziona dodici brani in 1 piacevolissima ora di musica da ballare e gustare alla fine di questo distopico periodo. Pop elettronico, clubbing, world music ed elementi assai zuccherosi, fanno da contorno ad un lavoro accattivante e mai banale.

La maturità di Cosmo

La varietà degli spunti è sterminata: dai vertiginosi tribalismi elettronici (Antipop, al minimalismo esotico (Mango), ai languidi inni mantra da ballare sulle rive di un mare piatto (Puccy Bom), si compenetrano nel raggio cosmico di La terza estate dell’amore, uno dei migliori album italiani di questa stagione. Non lasciatevi ammaliare dal titolo e dai testi surreali, questo è il disco più politico della carriera dell’artista nato a Ivrea nel 1982. Unica nota stonata: da queste parti l’auto-tune ci disturba, ma tutto il resto è veramente una meraviglia.


5- CABARET DU CIEL –  BREATH OF INFINITY
(elettronica)

I Cabaret Du Ciel, ossia i trevigiani Gian Luigi Morosin e Andrea Desiderà, sono per la scena elettronica nostrana tanto seminali e importanti  quanto sconosciuti al grande pubblico, anche dopo la ristampa su vinile di Skies in the Mirror di un paio di anni fa. Breath of Infinity, pubblicato dalla nuova e già convincente etichetta fiorentina Quindi Records in collaborazione con l’associazione bolognese LEDX, contiene nuove composizioni e qualche vecchia idea inedita e rispolverata per l’occasione.

I Linguaggi dell’elettronica

I linguaggi dell’elettronica ci sono tutti: dall’ambiente alla new age alle derive IDM, “Theatre Azure” ti porta laddove la new age di Kaitlyn Aurelia Smith incontra l’ambient intimista di nuovi alfieri del genere come Polypores o Field Lines Cartographer, mentre il basso fretless di Giampaolo Diacci su “Climatic Variations” sembra voler ammiccare al Peter Gabriel del suo capolavoro Passion ma con poliritmi e loop possibili solo se si è passati sotto le forche caudine del post-rock di matrice Tortoise, altrove è il synth a fare da guida, come nella breve “Meredith,” divertissement melodico e raffinato che è un antipasto per il techno-kraut di “Sunset Parade March” e il synth-pop vagamente anniottantesco di “Highlands.” I Cabaret Du Ciel sono esattamente ciò che era necessario perché l’elettronica più attuale potesse dire qualcosa anche in italiano.


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