I Beach Boys e ‘Pet Sounds’, la ricerca della perfezione pop

Beach Boys Pet Sounds

Pet Sounds è l’undicesimo album in studio dei Beach Boys, pubblicato nel 1966 dalla Capitol Records. Il disco è prodotto da Brian Wilson.

09:30:12  – 16/05/2020


La sfida

Il disco pop perfetto. Un’utopia, la pietra filosofale alla ricerca della quale molti musicisti hanno dedicato la carriera, arrivandoci vicino ma senza forse mai raggiungerla davvero. La ricerca della perfezione pop, a metà anni sessanta, era un affare privato tra due bands che si studiavano a vicenda, cercando di alzare l’asticella disco dopo disco: i baronetti di Liverpool e i biondi surfisti californiani. Due gruppi che avevano avuto un’evoluzione molto simile, da boy bands perennemente in cima alle classifiche a più maturi e riflessivi cantori dei loro tempi.

L’alchimista del suono

Quando Brian Wilson inizia a concepire Pet Sounds, lavorando col paroliere Tony Asher, i Beatles hanno da poco pubblicato Rubber Soul, un disco che esercita una profonda influenza sulla sua scrittura e sul modo di concepire gli arrangiamenti. Al ritorno da un tour in Giappone ed Hawaii,gli altri membri della band si trovano davanti un lavoro già in gran parte composto. Ciononostante la gestazione del disco sarà lunga e laboriosa, dal luglio del 1965 all’aprile del 1966, per poi uscire il 16 maggio del 1966.

I progressi nelle tecniche di registrazione consentirono a Wilson di allevare i suoni cuccioli assemblandoli con cura certosina. Nel farlo aveva senz’altro in mente il lavoro di George Martin coi Beatles, ma non solo. C’è una evidente ispirazione che viene dal wall of sound di Phil Spector, c’è l’ammirazione per le orchestrazioni di Burt Bacharach, c’è anche un richiamo all’exotica di gente come Les Baxter e Esquivel, c’è un tocco di baroque-pop alla Zombies. C’è un uso creativo e fantasioso di strumenti come glokenspiel, theremin, harpsichord, ukulele, fisarmoniche, corde e fiati, e una particolare attenzione viene dedicata alla parte percussiva. Tale complessità, va detto, non inficia in nessun modo la fruibilità delle canzoni. E’ musica pop, della miglior fattura.

I Beach Boys e il Pet Sounds dell’innocenza 

Il mood del disco oscilla tra leggerezza (come la copertina con una foto allo zoo di San Diego suggerisce) e introspezione, tra l’innocenza dell’adolescenza e le disillusioni dell’età matura. C’è anche, sottotraccia, lo straniamento tipico della psichedelia (l’LSD era arrivato anche qui). in fondo si tratta di una sorta di concept, un viaggio attraverso le varie fasi del vivere e dell’amare. Se nell’iniziale Wouldn’t It Be Nice c’è la speranza di poter crescere insieme per realizzare i propri sogni, nella finale Caroline, No c’è il rimpianto dei sogni infranti. Nel mezzo, l’insoddisfazione del presente di I Just Wasn’t made For These Times.

Ma analizzare il disco brano per brano appare superfluo, tutti lo conoscono, o almeno dovrebbero. Certo tutti hanno ascoltato almeno una volta nella vita un classico come God Only Knows, ma nel disco non ci sono riempitivi, anche i due strumentali, Let’s Go Away For A While e Pet Sounds, sono funzionali alla riuscita del disco. Che non ebbe un riscontro commerciale immediato, ma assurse presto allo status di capolavoro.

Epilogo

Il resto della storia merita di essere almeno accennato. La risposta dei Beatles con Revolver prima e Sgt. Pepper’s poi (per loro ammissione ispirato da Pet Sounds), i tentativi di alzare l’asticella concependo Smile col genietto Van Dyke Parks, la frustrazione e gli abusi, culminati con la distruzione del nastro del disco, il tunnel di confusione mentale da cui Wilson uscirà solo negli anni ’90, la ritrovata serenità. E un ricordo personale: un tardo pomeriggio iberico, la brezza marina a cullarci, Brian Wilson che esegue tutto Pet Sounds per il suo cinquantesimo compleanno, il sorriso stampato sulla faccia di tutti i presenti.

 

Gabriele Marramà 

 

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