‘DAYDREAM NATION’: la rivoluzione noise rock dei Sonic Youth

Se c’è un album di cui ci si può innamorare al primo ascolto, questo è Daydream Nation. Pubblicato alla fine degli anni Ottanta, arrangiato da quattro ragazzi di New York che di lì a poco avrebbero fatto fortuna con il loro quinto disco in studio. L’album dei Sonic Youth esce nel 1988 sotto l’etichetta di Enigma Records per la scena USA e della Blast First per tutto il resto del mondo. 

Thurston Moore e Lee Ranaldo alle chitarre e alla voce (più l’organo per il secondo), Kim Gordon, immancabile presenza, che diviene icona della scena alternative destreggiandosi tra basso e microfono e Steve Shelley alla batteria che subentra nel 1985: poco più che ragazzi – eternamente giovani – cercano di scompaginare la grammatica del rock alternativo portando una ventata di noise e trascinando con sé la genuinità del garage. I Sonic Youth fanno ciò che dovrebbero fare i musicisti della loro età: raccogliere il meglio della musica nel sottobosco underground per sfaldarne i canoni e creare una nuova avanguardia, quella del noise rock.  

Daydream Nation, una piacevole vertigine adolescenziale

Gli strumenti che eravamo soliti associare a una rock band sono virati nella produzione di suoni acidi, melodie fracassate, accordi e accordature divergenti. Neodada? Non proprio. Provate a buttare un’occhio alle opere di Gerhard Richter – che ha firmato la cover dell’album – e scoprirete come la band e l’artista si accordino su glitch e sfocature.

Il focus dei soggetti rappresentati da Richter che traduce l’interferenza del e con il reale diviene “rumore” nei brani dei Youth: indistinzione strumentistica di chitarre che si incrociano, giustapposizione di ruoli dove non esiste più gerarchia e di genere e di componenti, vertigine adolescenziale di una sfocatura sonora che si attesta su un sound fresco ma maturo allo stesso tempo e che riposa su una ritmica scolpita e presente come la candela della copertina. Particolarità dell’album è che ci sono diversi brani che superano di poco i 7 minuti: il primo della tracklist, Teen Age Riot, che porta quel sapore di incertezza e gioventù alla ricerca di ideali da sovvertire e che ha tutta la forza di un inno. 

I brani

E poi The Sprawl, poesia del noise, tuffo verso un’introspezione estrema che corre sul filo del cantato quasi sussurrato della Gordon e sulla reiterazione del riff della chitarra che concede, sul finire del brano, un momento lirico in cui perdersi, infinito – bellissimo perché estenuante, dove il basso ne cesella l’umore. In Daydream Nation la forma canzone permane, ma è portata ai limiti dello sfaldamento: i Sonic Youth sconvolgono il sound, sfidano i brani su melodie “altre” incarnate nel rumorismo di Silver Rocket e nella sua intro acida.

La band ci ammalia con brani orecchiabili per poi svoltare il mood della canzone e portarci nell’universo di Sonic Youth dove l’ibridazione regna e l’atmosfera è tutto. È così in Total Trash, dove la stanza sonora che la band dedica al noise al minuto 5 è l’anticamera verso il loro universo e cerca di resettare il brano fino ad allora melodico.  

E infine Hyperstation, penultima traccia di un disco che con 14 brani ha compiuto il moto di rivoluzione venendo fuori come qualcosa di assolutamente nuovo e diverso da diventare accademia per i musicisti a venire e propulsione per un genere come il post-rock. In Hyperstation il disincanto è tangibile: in un brano che ha poche variazioni e che viaggia sua una linea vocale cadenzata, feedback armonici e uno slide ossessivo, ma che più degli altri ritrae l’inclinazione del disco: “It’s an anthem in a vacuum on a hyperstation, daydreaming days in a daydream nation”.

(Martina Lolli)


LEGGI ANCHE ——-> Sonic Youth: la band pubblica un live a sostegno del popolo ucraino

LEGGI ANCHE ——-> Sonic Youth: si intitola ‘In/Out/In’ la nuova raccolta di inediti


 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *