‘Dirt’, la dimensione più oscura degli Alice In Chains

12:7:08  –  29/09/20


Dirt, l’oscuro mondo di una generazione

È assodato che Dirt è un capolavoro. È il secondo album in studio degli Alice in Chains pubblicato il 29 settembre 1992, in pieno terremoto grunge con epicentro a Seattle. L’album, rispetto agli altri album si accosta ad uno stile più oscuro e alienante, malinconico e lento di influenza sludge metal e stoner metal, è stato inoltre l’ultimo album della band ad essere stato registrato con i membri fondatori del gruppo: Jerry Cantrell (chitarra, voce), Sean Kinney (batteria), Mike Starr (basso) e Layne Staley (voce solista). La copertina dell’album raffigura la modella Mariah O’Brien semisepolta in un deserto, con l’idea  di ricreare un’atmosfera infernale.

Il fenomeno grunge

Ormai gli Alice in Chains erano stati inghiottiti nel vortice del grunge. Va detto, però, che andarono oltre certi stereotipi del fenomeno: le influenze psichedeliche, il retaggio metal degli anni ’80, lo splendido timbro, sofferto ed evocativo, di Layne Staley all’apice della sua espressività e potenza vocale sono stati gli elementi che hanno creato un capolavoro indiscusso, nel quale l’unione vincente Staley/Cantrell crea testi e atmosfere pesanti, depresse, dovute alla dipendenza dall’eroina di Layne, ma non solo. All’epoca il batterista Sean Kinney lottava contro l’alcol, il bassista Mike Starr era anche lui tossicodipendente e Cantrell era depresso per la morte della madre. Il produttore, Dave Jerden, narra che durante le session di registrazione a volte Layne si iniettava eroina di fronte a tutti.

Lo specchio di una generazione

L’atmosfera cupa aleggia in tutto l’album. “Them Bones” ci da il benvenuto in questo viaggio nell’anima oscura di Layne, la sua voce profonda, le sue parole strazianti hanno la forza di ammaliare, incantare e ci rendono partecipi del suo dolore. Non c’è speranza di redenzione.

 

 

“Rooster”, brano dedicato alla guerra in Vietnam e al padre di Cantrell. Di qui in poi è una vera e propria discesa nel baratro più oscuro: i brani successivi tracciano l’ideale percorso verso il punto di non ritorno che una mente e un corpo possono percorrere se sconvolti dalla droga, il demone di Stanley. “Junkhead” come fa presagire il nome è una canzone per la droga e contro la droga, costruita con un andamento allucinante. In “Dirt” Staley dipinge l’affresco della sua disperazione. Chiaramente si riferisce ancora alla droga, un brano fatto da un tossico per i tossici.

 

 

“Down In A Hole”, con l’intreccio tra le due voci di Cantrell e Staley raggiunge, è l’ammissione di colpa di un uomo desolato davanti al proprio destino, incapace di spezzare le catene della dipendenza. Un vero e proprio capolavoro. Poteva benissimo finire qui l’album, perché questo pezzo sarebbe stato la perfetta chiusura. E invece l’ultimo pezzo è affidato a “Would?”, precedentemente usata per la colonna sonora del film “Singles” di Cameron Crowe, è l’ultimo messaggio di disfacimento personale, la definitiva dichiarazione di resa, perché la solitudine impedisce la guarigione.

 

Layne Staley e la sua testimonianza 

Dirt è uno di quegli album che ha lasciato un segno nella storia, una gemma splendente della musica, un capolavoro senza tempo, l’apice della discografia degli Alice in Chains, sicuramente triste, ma comunque di una bellezza disarmante. Ci siamo persi tutti un pò nei testi di Dirt, che comunicano in modo così efficace e prorompente una tristezza interiore, che non è soltanto quello della dipendenza da eroina di Layne, ma anche, la morte e la solitudine cosmica che non lasciano nessuno scampo. Layne ha capito che era molto meglio bruciare subito che spegnersi lentamente, anche se l’idea di morire e scomparire lo terrorizzava, sapeva di essere ormai alla fine, e per questo ci ha lasciato questa testimonianza intima e fragile per rimanere per sempre nella memoria del tempo.
(Cristina Previte)

 


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