26/04/2025
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Focus On di questo mese si concentra sull'ultimo album firmato CHRISTOPHER OWENS. Il disco è stato pubblicato lo scorso 18 ottobre

Senza rubriche non potrebbe esistere una webzine: contestualmente alle quotidiane pubblicazioni, FOCUS ON tratterà ogni mese argomenti di “varia umanità”, che si tratti di musica o eventi, industria musicale o festival, arte, costume, show business o caro biglietti. Questo è un appuntamento fisso coi lettori. Che siano segnalazioni o suggerimenti, recensioni critiche di album ma anche punti di (s) vista, tutto questo rappresenterà un momento di simbiosi e confronto con le passioni e le frequentazioni culturali di chi ogni giorno legge questa testata. Lo scopo è quello di approfondire anche gli argomenti più controversi, così come quelli che sono più difficili da comprendere.


Christopher Owens e la risurrezione

Il disco più interessante del mese di ottobre coincide con uno strano caso: parliamo di Christopher Owens e del suo bellissimo I Wanna Run Barefoot Through Your Hair, ma anche un po’delle dinamiche che hanno reso possibile la sua realizzazione; oppure, perlomeno, di quello che è stato riportato.

Ci sono artisti per cui ogni album è un concept-album che racconta una fase specifica della loro esistenza. È sempre stato così per Owens, al punto quasi da reclamare con forza, in ogni episodio autoriale, l’urgenza di comporre un potenziale testamento artistico. Chi conosce Owens dovrebbe aver capito quanto segue: non sembra possibile separare l’innata inclinazione a trovarsi puntualmente in un mare di guai, dal suo talento. Per il cantautore, forma e contenuto sono la medesima cosa, ecco perché la resurrezione è la cifra stilistica che accompagna ogni uscita del musicista nativo di Miami; questo, possiamo dirlo, è un tratto che ha in comune con altri rinomati colleghi (anche con alcuni che purtroppo non ci sono più).

La composizione di un mosaico

Come per la maggior parte degli artisti, è possibile anche per Owens. reperire molte informazioni sulla sua vita privata. Infatti, senza rendercene conto, se indaghiamo, vediamo che dalla difficile giovinezza – passata in giro per il mondo con i suoi genitori – arriviamo facilmente a comporre i pezzi del mosaico per trattare gli ultimi tragicomici anni di vita. Spaventa, a tratti, il ruolo della stampa in questa vicenda, che ha contribuito a lanciare Owens. nel tritacarne mediatico fin da quando era all’esordio coi Girls (2009), ma che poi sembra essersi sbadatamente scordata della sua esistenza nel momento in cui non aveva nemmeno l’assicurazione sanitaria per curarsi da un grave infortunio.

Tuttavia, proprio per merito o per colpa della stampa, abbiamo ripercorso gli accadimenti antecedenti al disco in questione – messi in fila dal buon Stefano Bartolotta nello speciale dedicato alle uscite settimanali – e disposti retoricamente così bene da sembrare un prodotto di finzione a metà tra Alejandro González Iñárritu e Paolo Villaggio. In mezzo a tutto ciò che Owens ci ha raccontato, c’è un passaggio fondamentale in cui sembrava remota, per il musicista, la possibilità di produrre un nuovo lavoro.

E parliamo di Owens, uno che con il suo compianto compagno Chet “Jr” White aveva realizzato una gemma luminosa e squisitamente postmoderna all’esordio (Album): un lavoro che rimasticava egregiamente più generi musicali dal lontano passato, acclamato univocamente dalla critica. E questo senza menzionare i buoni lavori realizzati da solo, che avevano donato al cantautore una nuova preziosa linfa.

Una stagione all’inferno

Quanto vissuto da Christopher Owens negli ultimi anni, riassumibile brutalmente come “una stagione all’inferno di rimbaudiana memoria”, è stato meravigliosamente sintetizzato in I Wanna Run Barefoot Through Your Hair , opera che flirta con la vita in ogni dettaglio. Nelle lunghe dieci tracce del disco ritroviamo l’essenza più autentica del chitarrista: i testi e gli arrangiamenti giustificano in buona misura i paragoni ingombranti tirati fuori in passato (da Costello a Elliot Smith), e allo stesso modo viene in mente un microcosmo di cantautori ostinati nell’affrontare la loro malinconia intrinseca, da disarmare con una bellezza genuina e spontanea.

Una bellezza forse non in grado di salvare il mondo, ma di rimandare la mestizia all’episodio successivo. Il modo migliore che abbiamo per comprendere il cantautore, infatti, è associarlo alla luce, quella accecante che ritroviamo man mano che il disco scorre, mentre gli arpeggi, i la la la, i cori gospel ci donano un calore che non avevamo il coraggio di domandare a C.O., specie dopo quanto avevamo saputo sul suo recente passato. Viene da pensare che tutto questo avrebbe potuto non esserci mai stato, e che avremmo accettato anche questo con una indifferenza figlia dei tempi.

Vincenzo Papeo


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