Blood Sugar Sex Magik: la consacrazione dei Red Hot Chili Peppers

Prodotto da Rick Rubin, Blood Sugar Sex Magik è il quinto album dei Red Hot Chili Peppers, pubblicato il 24 settembre 1991 da Warner Bros.

09:55:24  – 24/09/2021


La genesi dell’album 

Nel 1991 i Red Hot Chili Peppers sono a un bivio: all’attivo hanno già quattro album, almeno due dei quali (The Uplift Mofo Party Plan e soprattutto Mother’s Milk) due ottimi dischi di funk rock alternativo, che hanno dato loro una buona visibilità, anche internazionale. Il vero salto di qualità verso lo status di band planetaria ha bisogno però di un disco-consacrazione, che convogli le pulsioni funk/punk/hendrixiane degli esordi verso un sound più pulito e prodotto, pronto per un pubblico anche mainstream. 

E quale anno migliore, se poi il 1991 è passato alla storia come “The Year Punk Broke”. Parliamo dell’anno in cui il grande rock alternativo americano ha sfondato nelle classifiche traghettato da REM e Nirvana? Ed ecco che i RHCP non si fanno attendere: passati dalla EMI alla Warner, arruolato in cabina di regia Rick Rubin (Run DMC, Public Enemy, Slayer, Beastie Boys), che diventerà il loro produttore per tutti gli album successivi, ma che qui riesce veramente nel miracolo: quasi 75 minuti per un lavoro caleidoscopico e colossale, doppio 33 giri che sembra avere già in partenza quella sicurezza di sé che hanno solo certi capolavori, con la tracotanza che trasudano solo i dischi che nascono con tutti i crismi dei lavori spartiacque.

I Red Hot Chili Peppers nella storia 

Il lato A (o meglio il primo dei due 33 giri) è il vertice assoluto della band: il funk bianco di If You Have to Ask e Funky Monks, il riff muscolare di Suck My Kiss, il singolone Give it Away. E poi le struggenti ballate: la monumentale Breaking the Girl e la intimistica I Could have Lied. La seconda parte risente forse leggermente del minutaggio, ma contiene brani leggendari: la depravata e testosteronica titletrack, le memorabili Naked in the Rain e My Lovely Man (dedicata all’ex chitarrista Hillel Slovak, morto di overdose nel 1988), Sir Psycho Sexy (un pezzo indescrivibile, nel suo pasticciare e intrecciare ad arte chitarre appiccicose, ritornelli in falsetto e un testo da erotomane -ed EGOtomane- puro).

E poi Under the Bridge, il brano più famoso del lotto, ballata indimenticabile sorretta dai rintocchi chitarristici di Frusciante e un testo scritto da Kiedis con il cuore in mano, come poche altre volte farà in carriera.

Si dirà: con una sforbiciata di un paio di pezzi e l’inserimento di Soul to Squeeze (che finirà nella colonna sonora di Coneheads) e della cover della stoogesiana Search and Destroy (risalenti alle registrazioni dello stesso periodo), sarebbe stato un LP ancora più clamoroso. Ma forse sono proprio i seppur pochi riempitivi a darci la misura di che disco sia stato BSSM, proprio perché ne dimostrano la magniloquenza nel dispensarci qua e là gemme nascoste di memorabile potenza e vividezza funk.

L’importanza di Rick Rubin 

Merito dei tempi ormai maturi? Merito di Rubin? Della geniale follia di Flea? Forse. Di certo merito del genio chitarristico di John Anthony Frusciante, subentrato a soli 19 anni a Hillel Slovak dopo il suo passaggio ad altra dimensione. Dopo Mother’s Milk (e relativo tour), che lasciava intravedere tutto il potenziale del nostro, qui il genio melodico di Frusciante si evince da ogni gioiello chitarristico, più o meno nascosto.

Il 7 maggio 1992, in Giappone, durante il tour mondiale Frusciante lascia la band: inizia per lui un calvario durato anni, tra dipendenza da eroina e solitudine: diventerà suo malgrado la rappresentazione vivente che il genio ha un prezzo spesso carissimo da pagare. Tornerà, eccome se tornerà, in svariate forme, ma è un’altra storia.

La band apre quindi il decennio con un disco spartiacque che la consacra per sempre nel gotha del rock mondiale. Sarà per molti l’ultimo decennio di grande rock, o per lo meno l’ultimo decennio in cui il rock, per come lo si intende massivamente, è stato un linguaggio universale e trasversale per le giovani generazioni, prima di trasformarsi, suo malgrado, da iconoclasta a conservatore.

E i Red Hot Chili Peppers, volenti o nolenti, di quel decennio saranno riconosciuti tra i protagonisti. Seguiranno i ritorni e i nuovi addii di Frusciante, le dipendenze e le disintossicazioni, la parentesi Navarriana, altri dischi memorabili (su tutti Californication, che gli anni ’90 li chiuderà alla sua maniera insieme radio friendly e innodica) i mastodontici tour mondiali degli anni 2000. Ma mai più, purtroppo, un disco come questo, la pietra miliare del Crossover.

Nicolas Merli 

LEGGI ANCHE ——-> Red Hot Chili Peppers: a giugno al Firenze Rocks

LEGGI ANCHE ——-> Red Hot Chili Peppers: a breve un nuovo album?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *