A River Ain’t Too Much To Love, il minimalismo desolato di Smog (Bill Callahan)

A River Ain’t Too Much To Love è il dodicesimo disco a nome Smog della carriera di Bill Callahan, nonché quello che mise la parola fine al suo storico moniker. Se questo sia stato pensato prima o meno, non è dato saperlo, ma la presenza di canzoni come Say Valley Maker o di I’m New Here potrebbero essere indizi importanti al riguardo.

10:24:09  – 31/05/2020


Risorgere dalle ceneri

Quell’araba fenice che rinasce dalle ceneri cantata, appunto, nella seconda traccia del disco sembra trovare un riferimento nella copertina, dove campeggia lo squarcio creato da una bruciatura, una specie di macchia disegnata dalla cenere che si è fatta strada nel
bianco e nel vuoto. Allo stesso modo, anche la musica di Smog si apre come uno squarcio su silenzi dilatati, note sparute su praterie desolate, nelle quali affondare la forza delle parole. Parole come semi, da far germogliare in un terreno arido ma perfetto per lasciare
scorrere con pazienza il tempo necessario a farle diventare arbusti poderosi.

La Drag City e Chicago, fra post-rock e alt-folk

Dopo un percorso iniziale legato al lo-fi degli anni Novanta e alle prime produzioni registrate su quattro/otto piste e distribuite su cassette, Smog approda alla Drag City di Chicago, una città chiave per capire la musica di quegli anni. Non è un caso che proprio lì
si muovano i primi nomi legati al post-rock, fra i quali ce n’è uno che incrocia la strada di Callahan: Jim O’ Rourke. È proprio l’eclettismo di quest’ultimo a tirar fuori per primo l’originalità di un folk scarno e fuori dal tempo di cui si nutre la musica di Smog, in dischi meravigliosi come Wild Love (1995).

Dalla Smog Band a Bill Callahan

È però con questo lavoro del 2005 – che in un primo momento non viene inquadrato come uno dei suoi migliori dalla critica – che si evolve il personaggio Smog. La direzione nella quale si muove è fatta di strutture dilatate e rallentate, tipiche dello slowcore, senza avere dietro nessun architettura strumentale complessa, ma solo una chitarra che rinuncia quasi del tutto alle armonie in favore delle ripetizioni dei suoni e una voce sempre più baritonale, privata di intonazione, asservita totalmente alla narrazione.

Un’ America sinistra e desolata

Quella che viene cantata è un’America obliqua e sinistra, di camicie a quadrettoni e lande polverose, che straccia via il sogno politico e sociale per tuffarsi in un intimismo enigmatico che mette al centro l’uomo lasciato solo al suo destino. È l’America dei Will Oldham, dei Jason Molina (anche loro Drag City), dei Damien Jurado: quell’alternative folk che si aggrappa alle radici per ritrovare se stesso in un contesto di globalizzazione roboante. Smog è una creatura sfuggente, restia a darsi in pasto agli occhi esterni, di poche e soppesate parole: in questo lavoro ne dà summa espressione. Basti pensare all’apertura laconica della splendida Palympsest: poche note di chitarra, poche frasi gettate nel nulla, che sembrano risuonare potentissime in un deserto gelido. “Why’s everybody looking at
me/Like there’s something fundamentally wrong/Like Im a southern bird/That stayed north too long”

Esistenzialismo enigmatico

Questo è il mood che percorre tutto il disco, in un’orizzonte senza troppi saliscendi, completamente rivolto a un’indagine quasi esistenzialista dell’uomo. Dalla già citata Say Valley Maker in cui il protagonista si trasforma e rinasce sotto diverse forme, alla celebre Rock Bottom Riser di nuovo un’ode alla capacità di risalire dal fondo, fino al capolavoro sul finale di I’m New Here altro gelido episodio di umanità ai margini, ma autentica. E che, in questo senso, si adattava perfettamente a chi l’ha reinterpretata un lustro dopo, Gil Scott Heron. “No matter how far wrong you’ve gone/You can always turn around”: l’importante è andare. E qui Smog – o quello che sarà Bill Callahan – si muove in avanti e ci consegna un autentico classico per spiriti desolati.

Patrizia Cantelmo 

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