37 anni dal quarto album di Peter Gabriel: l’emblema dell’avanguardia sonora

 

Peter Gabriel IV, uscito il 6 settembre 1982, è l’ultimo disco della quadrilogia che ha iniziato la sua carriera da solista. L’atto finale di un percorso affascinante e misterioso di affrancamento dal ruolo oneroso di frontman dei Genesis e di costruzione di un’identità nuova. Un percorso che parte dalle copertine, che vedono il suo volto nascosto o sfigurato. Qui la trasformazione si è compiuta e quella che appare è una figura aliena e inquietante al pari della musica contenuta nel disco. Un crogiolo di stili ed influenze che Gabriel da novello dottor Frankenstein modella in una nuova forma di pop mutante.

Ci si perde, tra questi suoni e queste canzoni, grazie anche alla co-produzione di David Lord e al sostegno di una band formidabile (David Rhodes, Larry Fast, Tony Levin, Jerry Marotta). Terzomondismo e avanguardia tecnologica vanno a braccetto e strizzano l’occhiolino a coetanei come Eno e Fripp così come ai nipotini della new wave. Anche i temi trattati attingono a varie fonti, dalla perdita delle radici dei nativi americani narrata in San Jacinto alle esperienze di Carl Jung coi percussionisti africani di The Rhythm of the heat, ai trattamenti disumani dei prigionieri politici in America Latina descritti in Wallflower.

Se Shock the monkey è il pezzo più conosciuto (che porterà Gabriel a volteggiare da novello Tarzan sulle teste dello sbigottito pubblico sanremese), tutti i brani sono meritevoli di menzione, dall’immediatezza di I have the touch al simil rap che apre Lay your hands on me, dal ritualismo tribale di The family and the fishing net alla festa finale di Kiss of life. Una pietra miliare e probabilmente l’apice della creatività di Gabriel, che da lì inizierà un processo di normalizzazione, anche se sempre all’insegna della classe e della raffinatezza.

Gabriele Marramà

 

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